LA FONDAZIONE CASA CARD. MAFFI

Articolo tratto da “I Quaderni della Propositura”- n. agosto 2023.
di Mons. Piero Malvaldi. 

La Fondazione Casa Cardinale Maffi di San Pietro in Palazzi (Cècina) è il fiore all’occhiello della Diocesi di Pisa. Non a caso Papa Giovanni Paolo II, il 22 Settembre 1989, iniziò la sua visita pastorale alla Diocesi da questa località e da questa struttura. Nell’occasione ebbe parole di forte apprezzamento per l’istituzione, di ringraziamento per l’Arcivescovo Alessandro Plotti e per tutti i presenti e di fraterno amore per gli ospiti.

Ma le parole più belle le riservò a Mons. Pietro Parducci, all’epoca parroco di San Pietro in Palazzi e Presidente della Fondazione.

“Un attestato di riconoscenza devo riservare a Mons. Pietro Parducci, che di questa casa fu, tanti anni or sono, il fondatore. Sviluppando un’iniziativa generosa dell’indimenticabile Cardinale Pietro Maffi, egli ampliò l’iniziale asilo infantile, attrezzandolo anche come casa di accoglienza per le molte persone anziane o inabili che la guerra aveva privato di ogni assistenza. Con l’aiuto di Dio e di tanti cuori generosi, l’opera ha prosperato e, in questi quasi cinquant’anni di attività ha offerto ospitalità e conforto a circa ottomila persone”.

In queste parole del Papa compaiono i due personaggi eccezionali, Maffi e Parducci, che furono la mente e il braccio per fondare la parrocchia di San Pietro in Palazzi e risolvere il disagio materiale e spirituale di quella popolazione.

Quella zona, detta maremma pisana, interamente paludosa e quindi infestata dalla malaria, pur appartenendo alla Diocesi di Pisa non aveva, visti i disagi, una presenza di clero pisano così che i pochi residenti, per le necessità spirituali si appoggiavano al clero “volterrano” di Cècina.

ll marchese fiorentino Carlo Ginori (1702 – 1757), più conosciuto per la famosa manifattura delle porcellane, ebbe l’idea e il merito di iniziare la bonifica di quelle terre che pian piano richiamarono contadini e artigiani da tutta la Toscana.

La cura pastorale venne successivamente affidata – ma siamo ormai alla fine del 1852 – alla parrocchia “pisana” di Collemezzano che sorgeva a monte della pianura, con conseguente edificazione di piccola cappella anche ai “palazzi”, aperta al culto.

La svolta ci fu con la nomina di Mons. Pietro Maffi ad Arcivescovo Metropolita, poi Cardinale, di Pisa. Il Maffi, fermatosi casualmente ai “palazzi di Collemezzano” (così dicono i documenti d’archivio alla data 1905) nell’occasione di un suo viaggio a Roma lungo l’Aurelia, si rese conto dei tanti problemi dei residenti e studiò una soluzione. Da uomo molto pratico qual era acquistò un casa per farne un punto d’appoggio per la futura parrocchia ma a causa difastidiosi contrattempi l’operazione non dette immediatamente i frutti sperati. Fu necessario attendere ancora un ventennio per vedere l’inizio dei lavori (16 Ottobre 1927 su progetto dell’Ing. Giulio Fascetti) e la realizzazione della chiesa con la canonica e l’asilo per i piccoli. Il cardinale intanto era deceduto per cui l’opera venne portata a compimento dal suo segretario Mons. Giuseppe Calandra e consacrata nel 1933 dal nuovo Arcivescovo, Mons. Gabriele Vettori.

All’epoca Pietro Parducci (1912 – 1997) era studente nel seminario di Lucca. Per motivi a me sconosciuti passò al Seminario di Pisa e il giorno 11 Luglio 1937, nella chiesa carmelitana di San Torpè, venne ordinato sacerdote da Mons. Vettori.

Parducci pur essendo di famiglia modesta, da buon lucchese era fornito di cultura e capacità di fare per cui dopo appena un anno di servizio al Duomo di Pietrasanta, il 31 Agosto 1938 venne scelto per guidare la parrocchia dei “palazzi” divenuta nel frattempo San Pietro in Palazzi.

Da subito affiancò all’asilo dei piccoli una “Casa della carità” che poi divenne “Casa-famiglia” per i profughi/esuli di guerra e dopo ancora “Casa d’accoglienza” per disabili fisici, psichici e anziani. E, in ultimo “Ente Morale” riconosciuto dallo Stato.

Nel periodo postbellico non lesinò impegno e aiuto per tutto il territorio circostante tanto che dal 1944 al 1957 fu pure presidente dell’Ospedale civile di Cecina. Intanto la “Casa” cresceva per numero di assistiti e di personale con soddisfazione di tutti. Non mancavano i problemi e nemmeno le gelosie ma Mons.Parducci aveva molti amici fra i politici di allora. In più conosceva bene il Diritto ecclesiastico e civile che gli permise di “salvare” la propria creatura in più occasioni come quando nel 1972 si pose sotto “l’ombrello” dello Stato ampliando l’offerta di servizi sociosanitari oltre che in Toscana anche in Liguria e perfino in Lombardia.

Non si contano le onorificenze ecclesiastiche e civili ricevute nel corso della vita. Morì il 30 Novembre 1997 nella propria canonica, a San Pietro in Palazzi ma la “Fondazione Casa Card. Maffi” continua a vivere con lo stesso spirito del suo fondatore.

Adesso però, mettendo da parte i dati biografici di questo personaggio eccezionale, vorrei scrivere qualcosa della mia esperienza nella Casa.

Conobbi Mons. Parducci nell’occasione di un ritiro spirituale promosso dal Rettore del Seminario, don Paoletti, per noi teologi e quindi ormai prossimi agli Ordini sacri. Monsignore all’epoca era molto chiacchierato: viaggiava in Mercedes, talare d’alta sartoria, consigliere d’amministrazione in banca, whisky per gli amici, battute pesanti per i nemici, plateali gesti di protesta anche in cronaca nazionale ecc.

Senza ricorrere a troppi giri di parole smontò le chiacchiere: viaggiava in Mercedes perché ogni giovedì della settimana doveva correre a Roma (600 Km. fra andata e ritorno); teneva una talare sempre in ordine perché facendo parte della commissione vaticana “Pro Ecclesia et Pontifice” non poteva presentarsi al Papa con una veste rattoppata; era consigliere di Banca solo per poter accendere mutui con maggiore facilità; offriva il Whisky di marca ai benefattori della Casa; insultava soltanto chi lo provocava; compiva gesti plateali di protesta (in una occasione accompagnò un pullman intero di degenti alla Prefettura) quando gli ritardavano i contributi per gli ospiti ecc. Inutile dire che con quell’intervento poco “spirituale” si conquistò immediatamente la nostra simpatia.

Di lì a poco, sempre dietro invito del Rettore, venni incaricato di tenere una conferenza spirituale sul Natale agli ospiti della Casa.

Monsignore mi accolse con simpatia che poi mutò addirittura in deferenza non appena scoprì che ero nipote del professor Varese Malvaldi, direttore sanitario dell’ospedale di Livorno e ispettore di tutte le strutture sanitarie della provincia (quindi anche della Casa…).

La conferenza andò bene tanto che rientrai alla sera in Seminario con una bella bottiglia di… Chivas e ventimila lire per la benzina che girai al Rettore visto che io non bevevo superalcolici e l’auto apparteneva al Seminario.

Negli anni del mio servizio pastorale a Pontedera e anche successivamente quando ormai ero Parroco a San Casciano di Càscina non avevo più avuto modo di incontrarlo personalmente pur frequentando una struttura per giovani diversamente abili a Collesalvetti che gravitava già allora nell’orbita della Casa Card. Maffi.

Ho dei ricordi davvero struggenti di quel periodo. Durante l’anno scolastico ero solito accompagnare i miei studenti al Colle (ovviamente in orario extrascolastico) per incontrare “i ragazzi” e lo stesso facevo con i giovani della parrocchia nell’estate. Mi accoglieva Francesco Nacci e insieme, “ragazzi” e studenti, facevamo esperienza di fraternità dialogando se possibile , svolgendo semplici mansioni sotto la guida del personale oppure passeggiando mano nella mano nel cortile antistante la sede.

Se nel viaggio di andata giovanotti e ragazze erano chiassosi ed esuberanti al limite dello sguaiato, in quello di ritorno erano silenziosi, quasi depressi. Era allora che io intervenivo: poche parole per spiegare il senso della carità cristiana e il dovere della solidarietà nei confronti degli ammalati. Presentavo pure l’esperienza dei volontari a Lourdes con l’UNITALSI e l’ORDINE DI MALTA e così tutti gli anni c’erano tanti giovani che partecipavano al pellegrinaggio con il treno “bianco” dei barellati.

Tornando a Mons. Parducci ebbi modo di incontrarlo un’ultima volta a metà degli anni ‘80 se non vado errato ma fu un incontro molto triste.

L’Istituto Arcivescovile Santa Caterina, dove allora insegnavo, stava attraversando un momento difficile dal punto di vista finanziario e rischiava la chiusura. C’era bisogno di qualche idea nuova e anche di sovvenzioni… per andare avanti.

Ebbi l’incarico dall’Arcivescovo Matteucci di studiare un piano di rientro per le spese e al contempo di individuare possibili oblatori. Pensai subito a Mons. Parducci e mi presentai “col cappello in mano”, come si suol dire in questi casi.

Purtroppo non era in giornata: a suo dire la Casa stava incontrando difficoltà d’ogni tipo: esterne, per sviluppi inattesi della normativa regionale che minacciava la sopravvivenza stessa della Casa e interne per episodi di errata amministrazione a lui imputabili. Per tutti questi motivi, nonostante fosse il “fondatore”, era stato messo in discussione e questo clima di sfiducia gli pesava moltissimo.

La crisi rientrò ma di lì a poco formalizzò le sue dimissioni non sentendosi più all’altezza di guidare la sua “creatura” pur mantenendo un posto di rispetto fino all’ultimo giorno di vita.

Subentrò così un nuovo Presidente, di sua fiducia, e un nuovo Consiglio.

La Casa divenne “Fondazione Casa Cardinale Maffi” fino ad avere ben otto strutture dislocate fra Toscana e Liguria nelle province di Pisa, Livorno, Massa Carrara e La Spezia e circa mille persone tra ospiti e personale.

C’è da dire, e concludo, che il paese di San Pietro in Palazzi non lo ha dimenticato. In primavera, andando in “loco” per scattare foto e raccogliere testimonianze mi sono imbattuto in un “murale” che descrive bene la sua filosofia: “Tutti insieme ce la possiamo fare”, con una vignetta che lo raffigura in tonaca, breviario e cappello intento a spronare i suoi collaboratori: “Forza ragazzi, diamoci da fare” e sotto una firma: “Gli amici di don Pietro”.

 

Penso d’aver conosciuto un “santo”…

di MONS. PIERO MALVALDI – articolo tratto da “I Quaderni della Propositura”, numero di Dicembre 2022. 

Subito dopo l’ordinazione sacerdotale venni inviato come “coadiutore” (prima si diceva “cappellano”) a Pontedera, nella parrocchia di San Giuseppe in località Oltrera con don Enzo Lucchesini, un parroco giovane e brillante che mi accolse con affabilità impegnandosi da subito a inserirmi nella realtà della comunità.

Gli impegni, mese dopo mese sempre crescenti, mi assorbivano completamente tanto che non riuscivo a ritagliarmi nemmeno qualche ora per la preghiera personale e per l’aggiornamento filosofico e teologico.

Don Enzo allora mi impose di non prendere impegni per il dopo-cena se non per occasioni particolari e di dedicare quel tempo prezioso allo studio e alla preghiera.

Mi spiegò che lui, superata brillantemente la maturità classica, non era riuscito a laurearsi per essersi lasciato travolgere dagli impegni parrocchiali.

E così tutte le sere mi ritiravo in camera e studiavo un po’ di tutto da autodidatta: musica, direzione corale, lingue, fotografia, filmografia e tantissime altri discipline, inutili. Forse inutili no ma certamente poco consone al mio stato di sacerdote in servizio pastorale. Di nuovo don Enzo intervenne e mi suggerì di limitarmi ad approfondire le discipline teologiche e in particolare alla teologia biblica che da sempre era la mia materia preferita. Riuscii così a pubblicare pro-manuscripto e in un numero limitato di copie un albo a fumetti con gli episodi più importanti degli Atti degli Apostoli e successivamente uno, a colori, sulle cosiddette lettere cattoliche.

Don Enzo, compreso il mio interesse e la mia disposizione mi consentì allora di frequentare, da uditore, alcuni corsi specifici tenuti da teologi importanti. Ricordo in particolare il corso di don Giampiero Bof per la teologia fondamentale, quello di mons. Marcello Bordoni sulla Cristologia e quello di don Giannino Piana sulla Morale fondamentale; ne frequentai anche un quarto di Storia della Chiesa ma non riuscii a terminarlo.

Diventato parroco decisi di proseguire gli studi teologici in modo più ordinato e scelsi per questo lo Studio Teologico Accademico Domenicano di Bologna dove, accolto benevolmente dai padri domenicani e guidato saggiamente dal prof. p. Ottorino Benetollo, superai l’esame di baccalaureato (corrispondente alla Laurea breve) comprendente ben novanta argomenti delle varie discipline.

Iniziai i corsi (incluso un corso facoltativo di filmografia con il prof. p. Abbrescia) tutti molto interessanti e utili, cercando d’essere fedele alle lezioni e agli altri appuntamenti. Feci anche amicizia con vari professori in particolare con padre Alberto Galli con il quali condividevo il posto a tavola nel grande refettorio del convento di San Domenico.

Gli esami andavano bene e giunsi così in breve tempo a dover pensare all’argomento della tesi finale. Il professore prescelto per competenza e simpatia, il predetto prof. p. Benetollo, non aveva tempo per seguirmi e mi indirizzò a un certo professor Tomas Tyn che non conoscevo se non di vista.

Dagli incontri preliminari mi resi subito conto d’aver davanti oltre che un professore molto preparato anche un religioso zelante. Eravamo coetanei solo che lui era il professore e io lo studente per cui mi presentai con deferenza e rispetto.

Lui mi ricambiò immediatamente offrendomi la massima collaborazione.

Ora, chi è laureato sa bene come funziona il “tutoraggio” del professore.

Lo studente presenta l’argomento – nel mio caso la dottrina sociale della chiesa – e il professore prima di tutto “aggiusta il tiro” per così dire, cioè aiuta lo studente a focalizzare il tema specifico in modo che non ci siano sbavature fuori-tema.

In secondo luogo suggerisce i testi ai quali fare riferimento per la ricerca preliminare e infine traccia le linee di approfondimento per aiutare lo studente a produrre qualcosa di personale e di originale. In tutte e tre queste fasi i rapporti fra i due devono essere strettissimi onde evitare allo studente di perdere tempo percorrendo strade sbagliate.

Raccolto dunque il materiale di ricerca presentai il possibile indice del lavoro. Il professore ridusse ulteriormente il campo di studio e mi fissò 4/5 capitoli, non di più.

Iniziai così a scrivere il primo capitolo cui seguì la sua correzione. E così tutti gli altri. Le sue osservazioni, numerose e pertinenti, mi costrinsero più volte a scrivere e riscrivere parti anche consistenti del lavoro ma lo feci volentieri. Insomma in pochi mesi giunsi alla conclusione che approvò senz’altro. Mi pregò soltanto di verificare una per una le citazioni sia quelle magisteriali sia quelle scritturali e così i vari testi che avevo riportato cosa che feci con impegno e serietà.

Venne quindi il giorno della Licenza – corrisponde alla Laurea magistrale – alla quale mi presentai speranzoso, forte di una media alta agli esami e di un giudizio positivo del relatore della tesi.

Invece… fu un disastro.

Dopo l’esposizione benevola del mio relatore prese la parola il controrelatore (detto anche censore) prof. p. Galli, che mi annientò. Io cercavo di rispondere ai numerosi rilievi e guardavo il relatore sperando di ricevere aiuto ma padre Tomas, terreo in volto, era più smarrito di me.

Seguì l’orale con il prof. p. Ruggero Biagi che non andò meglio visto il clima nervoso che si era creato nell’aula e anche la mia incertezza sull’argomento richiesto.

Insomma, per farla breve, uscii dall’esame di Licenza con un punteggio inferiore alla media con la quale mi ero presentato.

Ero molto arrabbiato con padre Galli che nelle pressoché settimanali frequentazioni a tavola non si era lasciato sfuggire… verbo ma anche con padre Thomas.

Mi aveva costretto a un sacco di correzioni, mi aveva fatto ri-scrivere un intero capitolo, mi aveva assicurato – per scritto – che il mio lavoro era ben fatto e poi se ne era stato zitto senza difendermi.

Lasciai sbollire la rabbia e per prima cosa affidai il mio lavoro a un professore terzo (prof. Dianich) perché a quel punto non ero più certo d’aver scritto delle cose sensate e quando mi assicurò che avevo prodotto un lavoro pregevole reagii inviando una lettera di protesta all’Università e affrontai, uno dopo l’altro, sia il controrelatore che il relatore. Padre Ruggero intanto era morto, ancora giovane, ai primi del 1988.

Padre Galli mi ricevette nell’infermeria. Soffriva molto. Anche se la malattia lo stava logorando aveva voluto ugualmente incontrarmi. Vedendolo molto provato lo abbracciai con sincero affetto e lo ringraziai per l’esempio di serietà intellettuale e di assoluta imparzialità che mi aveva dato.

Le mie correzioni ti saranno di aiuto nel prosieguo dei tuoi studi”, mi disse.

Fu la sua ultima “lezione” perché pochi mesi dopo (febbraio 1990) si spense. Devo dire che questa sua previsione si è avverata perché effettivamente non ho più avuto problemi nel mio lungo percorso accademico fino al dottorato di ricerca.

Poi passai, corrispondenza alla mano, a Padre Tyn e lì mi resi subito conto d’essere alla presenza di un “santo”. Davvero.

Era palesemente mortificato per l’accaduto.

Mi spiegò che, a suo tempo, era stato allievo di padre Galli (già suo relatore di tesi di Licenza) e quindi non se l’era sentita di dargli contro pubblicamente per rispetto.

Poi aggiunse che se io ero rimasto deluso, lui, in quanto relatore, era rimasto deluso più di me ma aveva accolto questo “insuccesso” accademico come dono di Dio per imparare a essere più umile.

A suo parere io avrei dovuto fare lo stesso e sentirmi ugualmente sereno per l’accaduto. Mi citò il salmo che dice: “bene per me se sono stato umiliato…”.

Non osai replicare, anzi, mi venne da vergognarmi delle mie lagne.

A quel punto si sciolse e cominciò parlarmi “a ruota libera” della sua vocazione monastica in Cecoslovacchia, della sua prima esperienza all’estero in Francia e poi dell’ingresso in un convento tedesco dove si era sentito soffocare e di come aveva poi trovato nella comunità di Bologna il suo ambiente di vita religiosa ideale nell’attesa di tornare nella sua amatissima patria per contribuire a rifondare l’ordine domenicano.

Dentro di me pensai che fosse un esaltato oppure un… santo: era il 1986, la Cecoslovacchia era ancora schiacciata sotto il tallone sovietico e non si intravedeva alcun segnale di rinascita cattolica.

Ci lasciammo con un caloroso abbraccio, pienamente riconciliati.

Di lì a poco anche lui, ad appena 39 anni di età, colpito da una malattia incurabile, morì (gennaio 1990).

Leggendo sul giornale della sua morte rimasi sgomento. Poi lessi da qualche parte del suo desiderio – espresso durante la dolorosa malattia – di offrire la vita per la sua Patria perché tornasse a Dio e mi resi conto che era davvero un “santo”!

Solo un santo può, sull’esempio di Gesù, offrire la propria vita non solo per i buoni ma anche per i persecutori!

Nell’apprendere la notizia contattai subito Padre Cavalcoli, appena nominato postulatore della sua causa, e mi feci inviare delle foto-ricordo che distribuii a persone care, come lui generose nel servizio e pronte a fare la volontà di Dio.

Offrii al contempo la mia “totale” disponibilità a testimoniare sulla sua fede e sulla sua umiltà nel caso fosse stato aperto un approfondimento canonico sulle sue virtù. Seguì un lungo periodo silenzio dovuto a cause a me sconosciute.

Proprio questa estate sono venuto a sapere che la “causa” potrebbe essere ripresa e me lo auguro perché penso che il caro Padre Tomas lo meriterebbe e con lui l’Ordine Domenicano del quale mi onoro di essere discepolo.

FRANCESCANI

di mons. PIERO MALVALDI – tratto da “I Quaderni della Propositura” numero di Agosto 2022

A essere sincero ho conosciuto prima i francescani e poi … San Francesco!

Non è una battuta. È la verità perché la biografia del Santo Patrono d’Italia l’ho studiata alle scuole medie; i francescani invece li conoscevo fin da piccolo grazie alle “missioni al popolo” predicate in parrocchia a Navacchio nel 1958 e alla frequentazione del loro convento di Nicosia, a Calci. 

Ho un ricordo nitidissimo del mio primo incontro con i francescani. Una sera, dopo cena, la zia Ida mi accompagnò in chiesa per il “quaresimale”. La zia non era sposata e così per uscire di casa, a sera, aveva sempre bisogno di un “cavalier servente”… il sottoscritto, allora bimbo di appena 8 anni.

La prima sorpresa fu quella di trovare la chiesa gremita. Al suono della campanella un frate francescano col saio marrone e i piedi scalzi uscì dalla sacrestia e si insediò sul pulpito. Dopo il saluto di rito scambiato con i presenti: “sia lodato Gesù Cristo – sempre sia lodato”, iniziò a parlare con un tono di voce che conciliava il sonno e infatti … mi addormentai subito!

Mi risvegliò un forte brusio proveniente dall’uditorio. Un signore sconosciuto, con un maglione consunto, si era levato in piedi e contendeva vivacemente il frate che annaspava nei discorsi quasi non sapesse rispondere alle contestazioni.

I presenti, scandalizzati dall’intervento dello sconosciuto, gli davano contro e al contempo guardavano smarriti l’oratore che però, ritrovato il bandolo della matassa, aveva ripreso a parlare riuscendo finalmente a convincere il contestatore.

A quel punto ci furono applausi per il frate e pure per l’oppositore che, con un vero colpo di teatro, era rientrato nei ranghi, indossando… il saio!

Era un frate pure lui e aveva inscenato tutta quella pantomima per coinvolgere maggiormente i presenti nell’argomento della predica!

I più anziani fra voi lettori ricorderanno senz’altro che questo tipo di predicazione sotto forma di contraddittorio, studiata di proposito dai francescani, andava per la maggiore negli anni ‘50.

Quello fu il mio primo incontro con i padri francescani. Ne seguirono altri, anzi molti altri, perché a pochi chilometri da casa sorgeva il famoso convento francescano di Nicosia abitato allora mi riferisco agli anni 1960/1970 da una discreta comunità di religiosi.

Il convento era stato edificato verso il 1265 dal pisano Ugo da Fagiano, già arcivescovo di Nicosia nell’isola di Cipro, sui resti del castello di Rozzano e offerto agli Agostiniani. Nel 1782 era passato ai francescani anche se la chiesa, elevata a chiesa parrocchiale, era rimasta dedicata a Sant’Agostino. Il convento manteneva l’aspetto dell’antico castello con un imponente portale d’ingresso, la foresteria, una biblioteca ricca di volumi. Lì aveva dimorato, sebbene in modo alterno, Padre Agostino da Montefeltro, il famoso oratore sacro di cui potrete leggere nel Dossier che gli abbiamo dedicato in questo stesso numero della rivista.

Oggi purtroppo il convento è abbandonato con grande dispiacere di tutti coloro che, affascinati dal carisma francescano, lo avevano scelto come mèta ideale dei loro pellegrinaggi.

Tornando ai miei incontri con i frati in quegli anni giovanili dico subito che mi ero appassionato a quei “personaggi”, semplici, arguti e al contempo molto dotti visto il loro servizio di “quaresimalisti”.

Tutte le occasioni erano buone per salire al convento, sempre in compagnia della zia che era molto devota, ma quella d’obbligo era il 2 Agosto per il perdono francescano detto anche “Perdon d’Assisi” in cui si poteva lucrare l’indulgenza per i defunti. Quanti ricordi di quella giornata tipicamente francescana in cui si viveva a tu per tu con i frati respirando il profumo della loro santità.

Fin dal mattino presto salivamo al convento. Tutti in bicicletta, naturalmente.

Gli uomini e le donne correvano subito a confessarsi mentre noi ragazzi salivamo alla fonte nel bosco per poi correre, felici, nel chiostro in attesa della Messa.

La solenne celebrazione iniziava a mezza mattinata ed era officiata dal padre “guardiano” con gli altri religiosi, nel coro, intenti a cantare in gregoriano.

Seguiva il pranzo, rigorosamente di magro, con il pane raffermo inzuppato di olio e aceto, le cipolle, i pomodori, i ravanelli e le altre verdure dell’orto.

Quando poi i frati si erano ritirati per la pennichella pomeridiana spuntava fuori inevitabilmente anche il fiasco del vino – proibitissimo – e allora erano guai perché c’era sempre qualcuno che esagerava e finiva ubriaco. Subito le grida acutissime delle donne svegliavano il frate converso (era un fratone nerboruto con un accento strano) che dapprima con parole suadenti – “su, da bravo, vieni con me” poi a forza di spintoni portava in clausura il malcapitato per riportarlo dopo una mezz’oretta, pieno di caffè, completamente ammansito: chissà che non gli avesse allungato anche qualche pestone…

Io, intanto, ero entrato come interno nell’Istituto Arcivescovile S.Caterina, dove l’educazione umana e cristiana era assicurata da ottimi sacerdoti che, oltre al resto, mi avevano fatto scoprire il carisma francescano fatto di povertà, semplicità, gioia, dottrina e tanto amore per la natura e per gli animali, ciò che me li rese ancora più simpatici. A proposito di animali ricordo l’accoglienza festosa riservata dai frati a una cucciola di … leone.

All’inizio dell’autunno avevano concesso ospitalità a un pittore assai eccentrico che si era portato dietro una leonessa cucciola, poco più grande di un gatto di media taglia. Faceva le fusa come i gatti per cui si prese fin dall’inizio un sacco di coccole sia dai frati che da noi ragazzi. Quando tornai al convento nell’occasione delle feste di Pasqua, quindi dopo tre/quattro mesi, la trovai notevolmente cresciuta ma sempre giocherellona. La portavano, accucciata nel sedile posteriore della Wolkswagen, a sgranchirsi le zampe in una zona isolata… Come tutti gli animali era felice di salire in macchina solo che per la gioia… ruggiva e questo incuteva un pochino di timore. Nell’estate era diventata a tutti gli effetti una leonessa e quindi venne ospitata nell’orto del convento, provvisto di mura altissime. Con il primo calore cominciò a miagolare o meglio ruggire in modo impressionante destando comprensibile apprensione nel vicinato e negli stessi frati tanto più che, avvicinata per la razione quotidiana di carne, soffiava e allungava zampate d’affetto…pericolose. Così, con grande dispiacere di tutti la povera bestia fu costretta a trovarsi un habitat più consono alla stazza e alle sue abitudini.

I miei contatti con i francescani sono continuati, negli anni, fino a oggi. Contatti talvolta sporadici, in altri casi continuativi come quelli con i confratelli di San Pio a San Giovanni Rotondo o con i padri professori dell’Università francescana a Roma o con i miei carissimi “vicini” di Vittoria Apuana o con un mio antico allievo, oggi sacerdote francescano.

Tutte occasioni per crescere umanamente e spiritualmente. In qualche caso occasioni provvidenziali come la settimana trascorsa alla Verna nell’imminenza della mia ordinazione sacerdotale. I pensieri mi affollavano la mente, di giorno e di notte, rendendomi inquieto ma la presenza spirituale di San Francesco riusciva a calmarmi.

Pensavo a chi avrei incontrato sulla mia strada e a come avrei potuto reagire: in quei momenti di grazia avvertivo interiormente il desiderio di vivere anch’io quella “perfetta letizia” di cui il Santo parla nel colloquio, famosissimo, con frate Leone… Se non lo conoscete andatevelo a leggere cliccando su internet: è una bella lettura anche se di difficile attuazione!

Ripensandoci e rileggendo i propositi di quei giorni confesso di non essere riuscito a realizzarli anche se ci ho provato e ci provo tuttora, affidandomi a Dio e alla bontà dei seguaci di San Francesco, quei cari frati francescani che da sempre mi seguono per la confessione e la direzione spirituale.