Penso d’aver conosciuto un “santo”…

di MONS. PIERO MALVALDI – articolo tratto da “I Quaderni della Propositura”, numero di Dicembre 2022. 

Subito dopo l’ordinazione sacerdotale venni inviato come “coadiutore” (prima si diceva “cappellano”) a Pontedera, nella parrocchia di San Giuseppe in località Oltrera con don Enzo Lucchesini, un parroco giovane e brillante che mi accolse con affabilità impegnandosi da subito a inserirmi nella realtà della comunità.

Gli impegni, mese dopo mese sempre crescenti, mi assorbivano completamente tanto che non riuscivo a ritagliarmi nemmeno qualche ora per la preghiera personale e per l’aggiornamento filosofico e teologico.

Don Enzo allora mi impose di non prendere impegni per il dopo-cena se non per occasioni particolari e di dedicare quel tempo prezioso allo studio e alla preghiera.

Mi spiegò che lui, superata brillantemente la maturità classica, non era riuscito a laurearsi per essersi lasciato travolgere dagli impegni parrocchiali.

E così tutte le sere mi ritiravo in camera e studiavo un po’ di tutto da autodidatta: musica, direzione corale, lingue, fotografia, filmografia e tantissime altri discipline, inutili. Forse inutili no ma certamente poco consone al mio stato di sacerdote in servizio pastorale. Di nuovo don Enzo intervenne e mi suggerì di limitarmi ad approfondire le discipline teologiche e in particolare alla teologia biblica che da sempre era la mia materia preferita. Riuscii così a pubblicare pro-manuscripto e in un numero limitato di copie un albo a fumetti con gli episodi più importanti degli Atti degli Apostoli e successivamente uno, a colori, sulle cosiddette lettere cattoliche.

Don Enzo, compreso il mio interesse e la mia disposizione mi consentì allora di frequentare, da uditore, alcuni corsi specifici tenuti da teologi importanti. Ricordo in particolare il corso di don Giampiero Bof per la teologia fondamentale, quello di mons. Marcello Bordoni sulla Cristologia e quello di don Giannino Piana sulla Morale fondamentale; ne frequentai anche un quarto di Storia della Chiesa ma non riuscii a terminarlo.

Diventato parroco decisi di proseguire gli studi teologici in modo più ordinato e scelsi per questo lo Studio Teologico Accademico Domenicano di Bologna dove, accolto benevolmente dai padri domenicani e guidato saggiamente dal prof. p. Ottorino Benetollo, superai l’esame di baccalaureato (corrispondente alla Laurea breve) comprendente ben novanta argomenti delle varie discipline.

Iniziai i corsi (incluso un corso facoltativo di filmografia con il prof. p. Abbrescia) tutti molto interessanti e utili, cercando d’essere fedele alle lezioni e agli altri appuntamenti. Feci anche amicizia con vari professori in particolare con padre Alberto Galli con il quali condividevo il posto a tavola nel grande refettorio del convento di San Domenico.

Gli esami andavano bene e giunsi così in breve tempo a dover pensare all’argomento della tesi finale. Il professore prescelto per competenza e simpatia, il predetto prof. p. Benetollo, non aveva tempo per seguirmi e mi indirizzò a un certo professor Tomas Tyn che non conoscevo se non di vista.

Dagli incontri preliminari mi resi subito conto d’aver davanti oltre che un professore molto preparato anche un religioso zelante. Eravamo coetanei solo che lui era il professore e io lo studente per cui mi presentai con deferenza e rispetto.

Lui mi ricambiò immediatamente offrendomi la massima collaborazione.

Ora, chi è laureato sa bene come funziona il “tutoraggio” del professore.

Lo studente presenta l’argomento – nel mio caso la dottrina sociale della chiesa – e il professore prima di tutto “aggiusta il tiro” per così dire, cioè aiuta lo studente a focalizzare il tema specifico in modo che non ci siano sbavature fuori-tema.

In secondo luogo suggerisce i testi ai quali fare riferimento per la ricerca preliminare e infine traccia le linee di approfondimento per aiutare lo studente a produrre qualcosa di personale e di originale. In tutte e tre queste fasi i rapporti fra i due devono essere strettissimi onde evitare allo studente di perdere tempo percorrendo strade sbagliate.

Raccolto dunque il materiale di ricerca presentai il possibile indice del lavoro. Il professore ridusse ulteriormente il campo di studio e mi fissò 4/5 capitoli, non di più.

Iniziai così a scrivere il primo capitolo cui seguì la sua correzione. E così tutti gli altri. Le sue osservazioni, numerose e pertinenti, mi costrinsero più volte a scrivere e riscrivere parti anche consistenti del lavoro ma lo feci volentieri. Insomma in pochi mesi giunsi alla conclusione che approvò senz’altro. Mi pregò soltanto di verificare una per una le citazioni sia quelle magisteriali sia quelle scritturali e così i vari testi che avevo riportato cosa che feci con impegno e serietà.

Venne quindi il giorno della Licenza – corrisponde alla Laurea magistrale – alla quale mi presentai speranzoso, forte di una media alta agli esami e di un giudizio positivo del relatore della tesi.

Invece… fu un disastro.

Dopo l’esposizione benevola del mio relatore prese la parola il controrelatore (detto anche censore) prof. p. Galli, che mi annientò. Io cercavo di rispondere ai numerosi rilievi e guardavo il relatore sperando di ricevere aiuto ma padre Tomas, terreo in volto, era più smarrito di me.

Seguì l’orale con il prof. p. Ruggero Biagi che non andò meglio visto il clima nervoso che si era creato nell’aula e anche la mia incertezza sull’argomento richiesto.

Insomma, per farla breve, uscii dall’esame di Licenza con un punteggio inferiore alla media con la quale mi ero presentato.

Ero molto arrabbiato con padre Galli che nelle pressoché settimanali frequentazioni a tavola non si era lasciato sfuggire… verbo ma anche con padre Thomas.

Mi aveva costretto a un sacco di correzioni, mi aveva fatto ri-scrivere un intero capitolo, mi aveva assicurato – per scritto – che il mio lavoro era ben fatto e poi se ne era stato zitto senza difendermi.

Lasciai sbollire la rabbia e per prima cosa affidai il mio lavoro a un professore terzo (prof. Dianich) perché a quel punto non ero più certo d’aver scritto delle cose sensate e quando mi assicurò che avevo prodotto un lavoro pregevole reagii inviando una lettera di protesta all’Università e affrontai, uno dopo l’altro, sia il controrelatore che il relatore. Padre Ruggero intanto era morto, ancora giovane, ai primi del 1988.

Padre Galli mi ricevette nell’infermeria. Soffriva molto. Anche se la malattia lo stava logorando aveva voluto ugualmente incontrarmi. Vedendolo molto provato lo abbracciai con sincero affetto e lo ringraziai per l’esempio di serietà intellettuale e di assoluta imparzialità che mi aveva dato.

Le mie correzioni ti saranno di aiuto nel prosieguo dei tuoi studi”, mi disse.

Fu la sua ultima “lezione” perché pochi mesi dopo (febbraio 1990) si spense. Devo dire che questa sua previsione si è avverata perché effettivamente non ho più avuto problemi nel mio lungo percorso accademico fino al dottorato di ricerca.

Poi passai, corrispondenza alla mano, a Padre Tyn e lì mi resi subito conto d’essere alla presenza di un “santo”. Davvero.

Era palesemente mortificato per l’accaduto.

Mi spiegò che, a suo tempo, era stato allievo di padre Galli (già suo relatore di tesi di Licenza) e quindi non se l’era sentita di dargli contro pubblicamente per rispetto.

Poi aggiunse che se io ero rimasto deluso, lui, in quanto relatore, era rimasto deluso più di me ma aveva accolto questo “insuccesso” accademico come dono di Dio per imparare a essere più umile.

A suo parere io avrei dovuto fare lo stesso e sentirmi ugualmente sereno per l’accaduto. Mi citò il salmo che dice: “bene per me se sono stato umiliato…”.

Non osai replicare, anzi, mi venne da vergognarmi delle mie lagne.

A quel punto si sciolse e cominciò parlarmi “a ruota libera” della sua vocazione monastica in Cecoslovacchia, della sua prima esperienza all’estero in Francia e poi dell’ingresso in un convento tedesco dove si era sentito soffocare e di come aveva poi trovato nella comunità di Bologna il suo ambiente di vita religiosa ideale nell’attesa di tornare nella sua amatissima patria per contribuire a rifondare l’ordine domenicano.

Dentro di me pensai che fosse un esaltato oppure un… santo: era il 1986, la Cecoslovacchia era ancora schiacciata sotto il tallone sovietico e non si intravedeva alcun segnale di rinascita cattolica.

Ci lasciammo con un caloroso abbraccio, pienamente riconciliati.

Di lì a poco anche lui, ad appena 39 anni di età, colpito da una malattia incurabile, morì (gennaio 1990).

Leggendo sul giornale della sua morte rimasi sgomento. Poi lessi da qualche parte del suo desiderio – espresso durante la dolorosa malattia – di offrire la vita per la sua Patria perché tornasse a Dio e mi resi conto che era davvero un “santo”!

Solo un santo può, sull’esempio di Gesù, offrire la propria vita non solo per i buoni ma anche per i persecutori!

Nell’apprendere la notizia contattai subito Padre Cavalcoli, appena nominato postulatore della sua causa, e mi feci inviare delle foto-ricordo che distribuii a persone care, come lui generose nel servizio e pronte a fare la volontà di Dio.

Offrii al contempo la mia “totale” disponibilità a testimoniare sulla sua fede e sulla sua umiltà nel caso fosse stato aperto un approfondimento canonico sulle sue virtù. Seguì un lungo periodo silenzio dovuto a cause a me sconosciute.

Proprio questa estate sono venuto a sapere che la “causa” potrebbe essere ripresa e me lo auguro perché penso che il caro Padre Tomas lo meriterebbe e con lui l’Ordine Domenicano del quale mi onoro di essere discepolo.

FRANCESCANI

di mons. PIERO MALVALDI – tratto da “I Quaderni della Propositura” numero di Agosto 2022

A essere sincero ho conosciuto prima i francescani e poi … San Francesco!

Non è una battuta. È la verità perché la biografia del Santo Patrono d’Italia l’ho studiata alle scuole medie; i francescani invece li conoscevo fin da piccolo grazie alle “missioni al popolo” predicate in parrocchia a Navacchio nel 1958 e alla frequentazione del loro convento di Nicosia, a Calci. 

Ho un ricordo nitidissimo del mio primo incontro con i francescani. Una sera, dopo cena, la zia Ida mi accompagnò in chiesa per il “quaresimale”. La zia non era sposata e così per uscire di casa, a sera, aveva sempre bisogno di un “cavalier servente”… il sottoscritto, allora bimbo di appena 8 anni.

La prima sorpresa fu quella di trovare la chiesa gremita. Al suono della campanella un frate francescano col saio marrone e i piedi scalzi uscì dalla sacrestia e si insediò sul pulpito. Dopo il saluto di rito scambiato con i presenti: “sia lodato Gesù Cristo – sempre sia lodato”, iniziò a parlare con un tono di voce che conciliava il sonno e infatti … mi addormentai subito!

Mi risvegliò un forte brusio proveniente dall’uditorio. Un signore sconosciuto, con un maglione consunto, si era levato in piedi e contendeva vivacemente il frate che annaspava nei discorsi quasi non sapesse rispondere alle contestazioni.

I presenti, scandalizzati dall’intervento dello sconosciuto, gli davano contro e al contempo guardavano smarriti l’oratore che però, ritrovato il bandolo della matassa, aveva ripreso a parlare riuscendo finalmente a convincere il contestatore.

A quel punto ci furono applausi per il frate e pure per l’oppositore che, con un vero colpo di teatro, era rientrato nei ranghi, indossando… il saio!

Era un frate pure lui e aveva inscenato tutta quella pantomima per coinvolgere maggiormente i presenti nell’argomento della predica!

I più anziani fra voi lettori ricorderanno senz’altro che questo tipo di predicazione sotto forma di contraddittorio, studiata di proposito dai francescani, andava per la maggiore negli anni ‘50.

Quello fu il mio primo incontro con i padri francescani. Ne seguirono altri, anzi molti altri, perché a pochi chilometri da casa sorgeva il famoso convento francescano di Nicosia abitato allora mi riferisco agli anni 1960/1970 da una discreta comunità di religiosi.

Il convento era stato edificato verso il 1265 dal pisano Ugo da Fagiano, già arcivescovo di Nicosia nell’isola di Cipro, sui resti del castello di Rozzano e offerto agli Agostiniani. Nel 1782 era passato ai francescani anche se la chiesa, elevata a chiesa parrocchiale, era rimasta dedicata a Sant’Agostino. Il convento manteneva l’aspetto dell’antico castello con un imponente portale d’ingresso, la foresteria, una biblioteca ricca di volumi. Lì aveva dimorato, sebbene in modo alterno, Padre Agostino da Montefeltro, il famoso oratore sacro di cui potrete leggere nel Dossier che gli abbiamo dedicato in questo stesso numero della rivista.

Oggi purtroppo il convento è abbandonato con grande dispiacere di tutti coloro che, affascinati dal carisma francescano, lo avevano scelto come mèta ideale dei loro pellegrinaggi.

Tornando ai miei incontri con i frati in quegli anni giovanili dico subito che mi ero appassionato a quei “personaggi”, semplici, arguti e al contempo molto dotti visto il loro servizio di “quaresimalisti”.

Tutte le occasioni erano buone per salire al convento, sempre in compagnia della zia che era molto devota, ma quella d’obbligo era il 2 Agosto per il perdono francescano detto anche “Perdon d’Assisi” in cui si poteva lucrare l’indulgenza per i defunti. Quanti ricordi di quella giornata tipicamente francescana in cui si viveva a tu per tu con i frati respirando il profumo della loro santità.

Fin dal mattino presto salivamo al convento. Tutti in bicicletta, naturalmente.

Gli uomini e le donne correvano subito a confessarsi mentre noi ragazzi salivamo alla fonte nel bosco per poi correre, felici, nel chiostro in attesa della Messa.

La solenne celebrazione iniziava a mezza mattinata ed era officiata dal padre “guardiano” con gli altri religiosi, nel coro, intenti a cantare in gregoriano.

Seguiva il pranzo, rigorosamente di magro, con il pane raffermo inzuppato di olio e aceto, le cipolle, i pomodori, i ravanelli e le altre verdure dell’orto.

Quando poi i frati si erano ritirati per la pennichella pomeridiana spuntava fuori inevitabilmente anche il fiasco del vino – proibitissimo – e allora erano guai perché c’era sempre qualcuno che esagerava e finiva ubriaco. Subito le grida acutissime delle donne svegliavano il frate converso (era un fratone nerboruto con un accento strano) che dapprima con parole suadenti – “su, da bravo, vieni con me” poi a forza di spintoni portava in clausura il malcapitato per riportarlo dopo una mezz’oretta, pieno di caffè, completamente ammansito: chissà che non gli avesse allungato anche qualche pestone…

Io, intanto, ero entrato come interno nell’Istituto Arcivescovile S.Caterina, dove l’educazione umana e cristiana era assicurata da ottimi sacerdoti che, oltre al resto, mi avevano fatto scoprire il carisma francescano fatto di povertà, semplicità, gioia, dottrina e tanto amore per la natura e per gli animali, ciò che me li rese ancora più simpatici. A proposito di animali ricordo l’accoglienza festosa riservata dai frati a una cucciola di … leone.

All’inizio dell’autunno avevano concesso ospitalità a un pittore assai eccentrico che si era portato dietro una leonessa cucciola, poco più grande di un gatto di media taglia. Faceva le fusa come i gatti per cui si prese fin dall’inizio un sacco di coccole sia dai frati che da noi ragazzi. Quando tornai al convento nell’occasione delle feste di Pasqua, quindi dopo tre/quattro mesi, la trovai notevolmente cresciuta ma sempre giocherellona. La portavano, accucciata nel sedile posteriore della Wolkswagen, a sgranchirsi le zampe in una zona isolata… Come tutti gli animali era felice di salire in macchina solo che per la gioia… ruggiva e questo incuteva un pochino di timore. Nell’estate era diventata a tutti gli effetti una leonessa e quindi venne ospitata nell’orto del convento, provvisto di mura altissime. Con il primo calore cominciò a miagolare o meglio ruggire in modo impressionante destando comprensibile apprensione nel vicinato e negli stessi frati tanto più che, avvicinata per la razione quotidiana di carne, soffiava e allungava zampate d’affetto…pericolose. Così, con grande dispiacere di tutti la povera bestia fu costretta a trovarsi un habitat più consono alla stazza e alle sue abitudini.

I miei contatti con i francescani sono continuati, negli anni, fino a oggi. Contatti talvolta sporadici, in altri casi continuativi come quelli con i confratelli di San Pio a San Giovanni Rotondo o con i padri professori dell’Università francescana a Roma o con i miei carissimi “vicini” di Vittoria Apuana o con un mio antico allievo, oggi sacerdote francescano.

Tutte occasioni per crescere umanamente e spiritualmente. In qualche caso occasioni provvidenziali come la settimana trascorsa alla Verna nell’imminenza della mia ordinazione sacerdotale. I pensieri mi affollavano la mente, di giorno e di notte, rendendomi inquieto ma la presenza spirituale di San Francesco riusciva a calmarmi.

Pensavo a chi avrei incontrato sulla mia strada e a come avrei potuto reagire: in quei momenti di grazia avvertivo interiormente il desiderio di vivere anch’io quella “perfetta letizia” di cui il Santo parla nel colloquio, famosissimo, con frate Leone… Se non lo conoscete andatevelo a leggere cliccando su internet: è una bella lettura anche se di difficile attuazione!

Ripensandoci e rileggendo i propositi di quei giorni confesso di non essere riuscito a realizzarli anche se ci ho provato e ci provo tuttora, affidandomi a Dio e alla bontà dei seguaci di San Francesco, quei cari frati francescani che da sempre mi seguono per la confessione e la direzione spirituale.

SPIRITUAL TRAINING

di DON PIERO MALVALDI

Anche quest’anno, cogliendo l’opportunità offerta dai colleghi del liceo scientifico cittadino, ho suggerito ai giovani studenti un argomento da approfondire in vista dell’esame di maturità.

Chiedevo se, nel contesto attuale che vede, oltre al resto, pure la ricerca della “verità morale” guidata dall’intelligenza artificiale e da algoritmi matematici, la “direzione spirituale continuasse ad avere spazio nell’educazione di un giovane.

Dalle risposte o meglio dalle non-risposte mi sono reso conto, con rammarico, che perfino il termine è assolutamente sconosciuto alle nuove generazioni. Ho deciso pertanto di affrontare la questione facendo riferimento, intanto ad alcune pratiche psicofisiche oggi in voga e poi alla mia antica – sfioro ormai i 70 anni, esperienza di giovane.

Giusto questa estate tornando dalla celebrazione festiva nella chiesa estiva di Roma Imperale ho incontrato un mio amico, dottore in scienze motorie, che procedeva a passo svelto in compagnia di un signore straniero che, rosso in volto e madido di sudore, faticava a stargli dietro. Ho accennato a un saluto ma il mio amico ha stentato a rispondermi tanto era concentrato nel seguire il predetto signore che evidentemente era al limite delle proprie forze, infatti gli sussurrava: “Courage, we are arriving”.

Incontrandolo successivamente mi ha spiegato d’essere alle dipendenze di un magnate russo in qualità di “Personal Trainer”: lo segue nei suoi spostamenti d’affari nei vari continenti per aiutarlo a mantenere forma ed efficienza fisica. Mi ha detto che il suo è un servizio professionale ben remunerato ma anche molto delicato perché si tratta di verificare giornalmente le condizioni di salute del cliente e di proporgli un adeguato programma tenendo conto delle stesse. Non solo. Nella sua attività professionale è affiancato anche da uno “Psychologist Trainer” che vigila sugli stati d’animo del cliente, derivanti dalla professione e dagli affetti, e interviene onde evitare un eccessivo affaticamento. Per cui, mi spiegava l’amico, nel caso sorgessero problemi psicologici causati da uno smacco finanziario o affettivo, e lo Psychologist Trainer non desse parere favorevole, egli deve evitare di farsi vedere per qualche giorno o almeno finché il disagio sia stato rimosso!

A questo punto, con la mia fervida fantasia, ho pensato che sarebbe senza dubbio più accattivante propormi ai giovani in qualità di “Spiritual Trainer” piuttosto che “direttore spirituale” e quindi invece che di direzione spirituale voglio scrivere di spiritual training…

E adesso la mia esperienza personale.

Non sarei mai diventato sacerdote se non avessi incontrato sulla mia strada Mons. Antonio Bianchin, uno spiritual trainer veramente straordinario, che mi ha guidato paternamente negli anni giovanili della formazione umana e cristiana per poi orientarmi al sacerdozio. Aveva una personalità forte, è vero, ma non sono stato plagiato! Del resto fui io a cercarlo. Dato che ero assai incerto sul mio futuro decisi, in piena autonomia, di mettermi sotto la sua guida per avere lumi.

Ricordo ancora con piacere il nostro primo incontro con un suo commento, graffiante, alla pagina evangelica dei discepoli di Emmaus. Come pure le lunghe passeggiate, in inverno, nel corso delle quali mi intratteneva quasi fossi un suo amico da sempre. O le gite in barca, in estate, con i colpi di calore…(soffriva molto il caldo). Ricordo l’esempio di vita nel momento in cui ebbe un grave problema di salute con dolori lancinanti che sopportò con estrema dignità senza piangersi addosso.

Così i suoi rimproveri, talvolta aspri ma sempre molto pertinenti con i quali mi educava al dovere dell’obbedienza nei confronti dei Superiori ma anche dell’autorevolezza nei confronti dei sottoposti, doti entrambe assolutamente necessarie per chi, come il sacerdote, parla in nome di Dio. E soprattutto il sorriso nel giorno in cui, appena ordinato sacerdote, mi baciò le mani.

Intendiamoci, don Antonio non era soltanto specialista di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Era specialista di “vocazione cristiana”: prima di tutto infatti aiutava noi giovani a scoprire la bellezza del Vangelo e l’amore di Gesù. Poi aiutava, con competenza, anche a individuare i “talenti” nascosti nella nostra personalità guidandoci di conseguenza nella scelta del tipo di servizio: consacrato, padre di famiglia, insegnante, libero professionista, imprenditore, operaio, sindacalista ecc. Non per niente alcuni dei suoi “ragazzi” sono oggi ai vertici della politica, siedono su cattedre universitarie di prestigio, primari di ospedali nazionali e internazionali come pure semplici operai che hanno fatto della loro professione la strada per la santità!

Veniamo adesso ai nostri tempi.

La prima cosa da dire è che siamo cambiati sia noi sacerdoti che i giovani. In meglio o in peggio non lo so perché ogni tempo appare difficile a chi lo vive: traducendo dal latino medievale (a pagamento, per fare qualche soldino, nei miei anni giovanili) i rescritti dei Vescovi pisani, anticamente Primati di Corsica e di Sardegna, alle comunità delle isole chissà quante volte ho trovato scritto, abbreviato, “ I.T.D. ” che sta per “in temporibus difficillimis”!

Noi sacerdoti o almeno noi anziani, più che cambiati (a parte la diminuzione numerica) siamo rimasti gli stessi, molto ingessati nel nostro ruolo istituzionale, poco inclini alle novità nel gestire il delicato compito di educatori/formatori.

E i giovani?

Ho letto ultimamente, citato da Alessandro D’Avenia, un testo del filosofo Massimo Galimberti assai duro sia nei confronti dei giovani che degli educatori in genere che riporto in sintesi: “(Oggi) i giovani non stanno bene (…) gli manca lo scopo (…) bevono, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la loro insignificanza sociale. Nessuno li convoca!”

Pur non essendo al livello dell’illustre cattedratico ritengo che il giudizio sia ingeneroso nei confronti di tanti giovani che invece si impegnano: basti pensare alla mobilitazione mondiale promossa dalla giovane Greta Thumberg a favore della protezione del Pianeta!

Ma quello che più mi ha colpito è l’ultima frase: nessuno li convoca… Ma è proprio vero che nessuno convoca i giovani?

Mi limito ovviamente alle questioni di mia competenza. “La Chiesa – asserisce l’ultimo documento sinodale sui giovani – convoca tutti i giovani, senza eccezione, …per ascoltare e chiedere aiuto oltre che per insegnare ad amare Gesù e vivere l’esperienza della comunità”

E continua specificando i mezzi usati per la convocazione: questionari tradizionali e on-line, proposta di incontri di preghiera, di confronto con il Vangelo, di discernimento in vista della scelta vocazionale, di servizi di volontariato, di aiuto solidale in Italia e all’estero ecc.

Il più delle volte però questa convocazione resta senza risposta almeno per quanto riguarda il primo ambito. Mi spiego. Se i giovani rispondono e rispondono generosamente alla convocazione ecclesiale, per quanto riguarda l’aiuto concreto agli altri restano invece assai freddi (o meglio si allontanano subito) quando si rendono conto che l’intenzione di chi li convoca è di comunicare l’amore per Gesù e di coinvolgerli nella comunità ecclesiale. Qualcuno me lo ha anche scritto:non voglio essere indottrinato e tanto meno ingabbiato in una struttura che non mi appartiene”!

A questo punto cosa fare?

È evidente dalla risposta di questo giovane peraltro battezzato, comunicato e cresimato, che ha un rapporto personale approssimativo con Gesù e ignora la vita della comunità ecclesiale.

Mi sento allora di suggerire ai nostri giovani la mia scelta di allora e cioè di uscire dal gregge e mettersi a tu per tu con se stessi come davanti a uno specchio.

E poi di scegliersi uno “Spiritual Trainer” capace di aiutarlo a incontrare personalmente Gesù, a gustare la bellezza della sua Parola e a vivere gioiosamente la vita della comunità.

Noi sacerdoti dovremmo invece fare un passo verso il basso riconoscendo, con umiltà, che il successo nell’educazione umana e cristiana di un giovane è anche e soprattutto questione di Grazia.

P.S. Per chi avvertisse il desiderio di uno scambio di idee con un prete (ormai anziano) comunico la mia mail: [email protected]