Qualcuno, leggendo il mio articolo di ieri, ha “osato” mettere in dubbio il mio passato di allenatore negli anni 1975-1980 a Pontedera. Vengo quindi a offrire ulteriori dettagli pronto a mettere in rete anche le foto come pezze d’appoggio alle mie dichiarazioni.
Sono stato allenatore di sport di nicchia: il tennis-tavolo spregiativamente detto pinghe-ponghe e il baseball detto …. (irriferibile).
Venni scelto per questo duplice prestigioso incarico perché… non lo voleva fare nessuno e siccome io ero il vice-parroco e dovevo dire sempre di sì, “obtorto collo”, fui costretto ad accettare.
Il ping pong mi dette molte soddisfazioni: tornei vinti alla grande, pioggia di medaglie di tutti i tipi, campionati vinti (grazie al dottor Iori che pagava la benzina per i trasferimenti). L’unico problema era che dovevo passare ore e ore a palleggiare con gli atleti: loro si davano il cambio mentre io restavo, impavido, al mio posto circondato da un nuvolo di “palle” (da cui la nota espressione “che ….. !”) che andavano e venivano finché, stremato, li mandavo tutti a casa e chiudevo d’imperio la seduta d’allenamento.
Anche il baseball mi gratificò moltissimo, almeno verso la fine della prima e ultima stagione di competizione. Avevo istruito ben bene i miei giovani atleti circa le regole del gioco ma perdevamo tutti gli incontri perché, meschini, roteavano la mazza a vuoto senza mai ribattere la palla. Io però li blandivo offendo loro un bel gelato a tre gusti dopo ogni incontro perduto e questo ci consentiva di andare avanti senza contestazioni da parte dei genitori. Per forza! I ragazzi tornavano a casa sempre contenti
Ma a metà campionato avvenne un episodio che ribaltò le carte in tavola. Era giunto in parrocchia un ragazzotto di nome Josè che dimostrava interesse per la disciplina. Veniva dal Texas ma era di lingua spagnola. Lo accolsi benevolmente nella squadra e, dietro sua insistenza, gli affidai il ruolo di battitore. Al primo lancio colpì la palla con tanta forza che superò le reti di contenimento e planò, dopo aver rimbalzato un paio di volte (per fotuna), sul cofano di una macchina provocando un ammaccamento e le conseguenti ingiurie ecc. dello sfortunato guidatore.
Lasciai al parroco e all’assicurazione di dirimere la contesa per il cofano ammaccato e nominai seduta stante il caro Josè “capitano” della squadra. Da quel momento il campionato fu una vera e propria passeggiata: vincevamo sempre e ovunque tanto che ormai eravamo diventati una leggenda.
Ricordo ancora con viva soddisfazione le convocazioni al campo CONI a Tirrenia, per gli allenamenti collegiali ecc. stavolta sotto la direzione di un vero allenatore, un signore grande e grosso che mi costringeva a correre dietro a lui col dire che l’allenatore doveva essere sempre e perfettamente in forma.
Nel corso di uno di questi allenamenti collegiali mi strappai di brutto i pantaloni in mezzo alle risate degli astanti. Quell’episodio increscioso mi condizionò a tal punto che pochi giorni dopo passai la mano a favore del predetto signore con grande dispiacere dei miei giovani atleti (il nuovo allenatore infatti, lucchesaccio sparagnino, gli aveva negato da subito la gioia del gelato col dire che non rientrava nella dieta dei veri… atleti).