Amo lo sport e ne ho praticati anche molti negli anni giovanili sia in prima persona che in qualità di allenatore (anche se la cosa può sembrarvi strana visto il mio attuale stato di forma in sovrappeso di 25 Kg).
Diventato sacerdote l’interesse è rimasto anche se per ovvi motivi si è ridotto il tempo a disposizione. È rimasto l’interesse anche perché, almeno per la mia esperienza maturata ai tempi dell’Oltrera, la amata polisportiva (curava infatti molte discipline sportive) di Pontedera, lo sport aiuta i giovani, ragazzi e ragazze, a forgiare il carattere e a crescere dal punto di vista sociale.
Non tutti gli sport però sono uguali. Alcune attività sportive non hanno bisogno di investimenti finanziari se non quelli essenziali; altre invece ne hanno un bisogno estremo ( in buona parte legittimo ) perché muovono un vero e proprio mercato (tesserati, spettatori ecc.)
E qui nascono i problemi. Sempre tornando alle mie esperienze passate se, per svolgere attività di atletica si spendeva pochissimo e si registrava la massima soddisfazione per atleti e genitori, per il calcio invece, almeno con alcune squadre di calcio, c’erano molte criticità.
Alcuni (non tutti per fortuna) allenatori infatti pensavano a vincere e basta. Quindi trascuravano i ragazzi del vivaio a vantaggio di altri, esterni all’ambiente, ma però più bravi e disposti a sacrificare tutto (!) al calcio.
Non si trattava, come pensavo ingenuamente all’inizio, di un motivo di giusta soddisfazione per un campionato vinto ma di un motivo esclusivamente finanziario perché i predetti “bravi”, passando successivamente a squadre blasonate garantivano una buona percentuale, in soldoni, alla squadra d’origine. Più ingaggi di prestigio… più soldi!
I “nostri” sentendosi sempre esclusi dopo un po’ di tempo rinunciavano. Ma anche i “bravi”, dopo qualche anno di illusioni, facevano la stessa fine perché incontravano sulla propria strada altri ancora più bravi di loro e finivano miseramente nel dimenticatoio.
A ben pensarci la loro fine era peggiore perché si ritrovavano esclusi oltre che dal calcio anche dalla vita sociale/professionale avendo trascurato le amicizie e gli studi. Quale amarezza quando si sentivano “scaricati” dagli stessi personaggi che in precedenza li avevano esaltati (forse sarebbe meglio dire sfruttati).
E quanto impegno, per i dirigenti seri, nel “ricostruirli” umanamente o aiutandoli a trovare un’occupazione. E, confesso, quanta delusione anche per me nel constatare ragazzi “geniali” costretti a frequentare scuole serali con enormi sacrifici per vedere di recuperare almeno in parte il distacco dai coetanei ormai professionisti affermati.
Ecco allora il senso di questa mia riflessione odierna. C’è, nell’economia “politica” (e anche il calcio vi rientra) una scala di valori ben precisa che deve obbligatoriamente mettere al primo posto i valori “umani” e solo dopo quelli economico/finanziari.
Un appello quindi a tutti i dirigenti sportivi perché considerino i propri tesserati come persone e non come merce. Non me ne vogliano coloro che si sentono chiamati in causa per questo mio richiamo a favore dei giovani sportivi.