di mons. PIERO MALVALDI – tratto da “I Quaderni della Propositura” numero di Agosto 2022
A essere sincero ho conosciuto prima i francescani e poi … San Francesco!
Non è una battuta. È la verità perché la biografia del Santo Patrono d’Italia l’ho studiata alle scuole medie; i francescani invece li conoscevo fin da piccolo grazie alle “missioni al popolo” predicate in parrocchia a Navacchio nel 1958 e alla frequentazione del loro convento di Nicosia, a Calci.
Ho un ricordo nitidissimo del mio primo incontro con i francescani. Una sera, dopo cena, la zia Ida mi accompagnò in chiesa per il “quaresimale”. La zia non era sposata e così per uscire di casa, a sera, aveva sempre bisogno di un “cavalier servente”… il sottoscritto, allora bimbo di appena 8 anni.
La prima sorpresa fu quella di trovare la chiesa gremita. Al suono della campanella un frate francescano col saio marrone e i piedi scalzi uscì dalla sacrestia e si insediò sul pulpito. Dopo il saluto di rito scambiato con i presenti: “sia lodato Gesù Cristo – sempre sia lodato”, iniziò a parlare con un tono di voce che conciliava il sonno e infatti … mi addormentai subito!
Mi risvegliò un forte brusio proveniente dall’uditorio. Un signore sconosciuto, con un maglione consunto, si era levato in piedi e contendeva vivacemente il frate che annaspava nei discorsi quasi non sapesse rispondere alle contestazioni.
I presenti, scandalizzati dall’intervento dello sconosciuto, gli davano contro e al contempo guardavano smarriti l’oratore che però, ritrovato il bandolo della matassa, aveva ripreso a parlare riuscendo finalmente a convincere il contestatore.
A quel punto ci furono applausi per il frate e pure per l’oppositore che, con un vero colpo di teatro, era rientrato nei ranghi, indossando… il saio!
Era un frate pure lui e aveva inscenato tutta quella pantomima per coinvolgere maggiormente i presenti nell’argomento della predica!
I più anziani fra voi lettori ricorderanno senz’altro che questo tipo di predicazione sotto forma di contraddittorio, studiata di proposito dai francescani, andava per la maggiore negli anni ‘50.
Quello fu il mio primo incontro con i padri francescani. Ne seguirono altri, anzi molti altri, perché a pochi chilometri da casa sorgeva il famoso convento francescano di Nicosia abitato allora – mi riferisco agli anni 1960/1970 – da una discreta comunità di religiosi.
Il convento era stato edificato verso il 1265 dal pisano Ugo da Fagiano, già arcivescovo di Nicosia nell’isola di Cipro, sui resti del castello di Rozzano e offerto agli Agostiniani. Nel 1782 era passato ai francescani anche se la chiesa, elevata a chiesa parrocchiale, era rimasta dedicata a Sant’Agostino. Il convento manteneva l’aspetto dell’antico castello con un imponente portale d’ingresso, la foresteria, una biblioteca ricca di volumi. Lì aveva dimorato, sebbene in modo alterno, Padre Agostino da Montefeltro, il famoso oratore sacro di cui potrete leggere nel Dossier che gli abbiamo dedicato in questo stesso numero della rivista.
Oggi purtroppo il convento è abbandonato con grande dispiacere di tutti coloro che, affascinati dal carisma francescano, lo avevano scelto come mèta ideale dei loro pellegrinaggi.
Tornando ai miei incontri con i frati in quegli anni giovanili dico subito che mi ero appassionato a quei “personaggi”, semplici, arguti e al contempo molto dotti visto il loro servizio di “quaresimalisti”.
Tutte le occasioni erano buone per salire al convento, sempre in compagnia della zia che era molto devota, ma quella d’obbligo era il 2 Agosto per il perdono francescano detto anche “Perdon d’Assisi” in cui si poteva lucrare l’indulgenza per i defunti. Quanti ricordi di quella giornata tipicamente francescana in cui si viveva a tu per tu con i frati respirando il profumo della loro santità.
Fin dal mattino presto salivamo al convento. Tutti in bicicletta, naturalmente.
Gli uomini e le donne correvano subito a confessarsi mentre noi ragazzi salivamo alla fonte nel bosco per poi correre, felici, nel chiostro in attesa della Messa.
La solenne celebrazione iniziava a mezza mattinata ed era officiata dal padre “guardiano” con gli altri religiosi, nel coro, intenti a cantare in gregoriano.
Seguiva il pranzo, rigorosamente di magro, con il pane raffermo inzuppato di olio e aceto, le cipolle, i pomodori, i ravanelli e le altre verdure dell’orto.
Quando poi i frati si erano ritirati per la pennichella pomeridiana spuntava fuori inevitabilmente anche il fiasco del vino – proibitissimo – e allora erano guai perché c’era sempre qualcuno che esagerava e finiva ubriaco. Subito le grida acutissime delle donne svegliavano il frate converso (era un fratone nerboruto con un accento strano) che dapprima con parole suadenti – “su, da bravo, vieni con me” poi a forza di spintoni portava in clausura il malcapitato per riportarlo dopo una mezz’oretta, pieno di caffè, completamente ammansito: chissà che non gli avesse allungato anche qualche pestone…
Io, intanto, ero entrato come interno nell’Istituto Arcivescovile S.Caterina, dove l’educazione umana e cristiana era assicurata da ottimi sacerdoti che, oltre al resto, mi avevano fatto scoprire il carisma francescano fatto di povertà, semplicità, gioia, dottrina e tanto amore per la natura e per gli animali, ciò che me li rese ancora più simpatici. A proposito di animali ricordo l’accoglienza festosa riservata dai frati a una cucciola di … leone.
All’inizio dell’autunno avevano concesso ospitalità a un pittore assai eccentrico che si era portato dietro una leonessa cucciola, poco più grande di un gatto di media taglia. Faceva le fusa come i gatti per cui si prese fin dall’inizio un sacco di coccole sia dai frati che da noi ragazzi. Quando tornai al convento nell’occasione delle feste di Pasqua, quindi dopo tre/quattro mesi, la trovai notevolmente cresciuta ma sempre giocherellona. La portavano, accucciata nel sedile posteriore della Wolkswagen, a sgranchirsi le zampe in una zona isolata… Come tutti gli animali era felice di salire in macchina solo che per la gioia… ruggiva e questo incuteva un pochino di timore. Nell’estate era diventata a tutti gli effetti una leonessa e quindi venne ospitata nell’orto del convento, provvisto di mura altissime. Con il primo calore cominciò a miagolare o meglio ruggire in modo impressionante destando comprensibile apprensione nel vicinato e negli stessi frati tanto più che, avvicinata per la razione quotidiana di carne, soffiava e allungava zampate d’affetto…pericolose. Così, con grande dispiacere di tutti la povera bestia fu costretta a trovarsi un habitat più consono alla stazza e alle sue abitudini.
I miei contatti con i francescani sono continuati, negli anni, fino a oggi. Contatti talvolta sporadici, in altri casi continuativi come quelli con i confratelli di San Pio a San Giovanni Rotondo o con i padri professori dell’Università francescana a Roma o con i miei carissimi “vicini” di Vittoria Apuana o con un mio antico allievo, oggi sacerdote francescano.
Tutte occasioni per crescere umanamente e spiritualmente. In qualche caso occasioni provvidenziali come la settimana trascorsa alla Verna nell’imminenza della mia ordinazione sacerdotale. I pensieri mi affollavano la mente, di giorno e di notte, rendendomi inquieto ma la presenza spirituale di San Francesco riusciva a calmarmi.
Pensavo a chi avrei incontrato sulla mia strada e a come avrei potuto reagire: in quei momenti di grazia avvertivo interiormente il desiderio di vivere anch’io quella “perfetta letizia” di cui il Santo parla nel colloquio, famosissimo, con frate Leone… Se non lo conoscete andatevelo a leggere cliccando su internet: è una bella lettura anche se di difficile attuazione!
Ripensandoci e rileggendo i propositi di quei giorni confesso di non essere riuscito a realizzarli anche se ci ho provato e ci provo tuttora, affidandomi a Dio e alla bontà dei seguaci di San Francesco, quei cari frati francescani che da sempre mi seguono per la confessione e la direzione spirituale.