Entrare in sintonia con i pazienti, accogliere il loro disagio, immedesimarsi nelle situazioni è l’atteggiamento con cui la responsabile del reparto di malattie infettive dell’ospedale di Massa, Antonella Vincenti, affronta i casi che necessitano di aiuto. Nell’esercizio della professione si creano legami di stima e affetto che vanno oltre la terapia. La dottoressa è da sempre impegnata nel sociale, come suo marito il professor Stefano Gatti. Insieme hanno creato una famiglia aperta alle esigenze del prossimo.
DI SILVIA CECCHI
“Io non faccio il medico. Io sono un medico”. Ascoltare il proprio paziente, comprenderne lo stato d’animo, manifestare solidarietà in presenza di una condizione difficile sono requisiti fondamentali secondo Antonella Vincenti, responsabile dell’unità operativa di malattie infettive dell’ospedale di Massa. La professione sanitaria, se intrapresa con vero spirito di servizio, supera l’esercizio della disciplina e si fa carico della complessità della situazione: “Ci vuole empatia, – dice la dottoressa – bisogna immedesimarsi nel paziente, fargli capire che accogliamo il suo disagio. Non si tratta solo di dare una pasticca, ma è tutto quello che c’è dietro ad essere di fondamentale importanza”.
La sensibilità, auspicabile e fondamentale in ogni ambito, è ancor più apprezzabile nel caso delle malattie infettive, che sono fonte di serio malessere interiore per la persona: “Io guardo sempre negli occhi i miei pazienti. Li faccio parlare, entro nella loro storia personale, cerco di trasmettere che ho capito la loro vicenda e il loro stato emotivo. Una malattia fisica ha delle ripercussioni anche a livello psicologico e morale che devono essere prese in grande considerazione”.
Incontriamo la dottoressa a casa in presenza del marito Stefano Gatti e della figlia Anastasia. È da subito evidente che tutta la famiglia approva e condivide lo spirito di servizio che distingue Antonella. Anche il marito si dedica al sociale, per cui a sua volta viene in contatto con persone che hanno bisogno di aiuto. La loro stessa abitazione è aperta al prossimo, nel vero senso della parola. Capita spesso che ospitino pazienti e anche altre persone che hanno bisogno di trascorrere qualche ora in amicizia e in famiglia. Diversi si trovano in condizione di disagio e a volte quello di cui hanno più bisogno è proprio di sentirsi “a casa”. Il rapporto di confidenza spesso si allarga anche ai familiari di coloro che sono in cura dalla dottoressa, cui viene spontaneo interessarsi delle necessità dei congiunti. In genere queste conoscenze si trasformano in legami di stima e affetto, che perdurano nel tempo.
Chiediamo alla coppia se non sia comunque difficile per loro accogliere nel proprio nucleo persone esterne: “Noi non ci pensiamo. È un rotolare nelle situazioni”, ci rispondono. “Per noi è naturale andare verso gli altri e la gente con noi si sente a suo agio. Le nostre cose sono degli altri”.
Sempre in linea con questo spirito, nel tempo marito e moglie hanno accolto in casa diversi bimbi che si trovavano in situazioni difficili nel proprio contesto familiare. Nel ’96 alla coppia sono stati assegnati in affido fratello e sorella italiani per un periodo determinato: “Li abbiamo accolti come veri e propri figli. Il nostro intento era quello di essere di sostegno sia a loro che ai loro familiari per il tempo necessario”. Ci raccontano poi di aver seguito per un periodo un ragazzo africano che era solo e aveva una storia difficile, una ragazzina polacca il cui padre era senza lavoro, un bimbo brasiliano sempre con una storia particolare.
Dal 2008, inoltre, accolgono una bimba bielorussa, ormai quasi maggiorenne, che trascorre con loro ogni estate. È originaria di Minsk e ha iniziato a venire in Italia nell’ambito del progetto Chernobyl. “Fa parte della nostra famiglia a pieno titolo”, dice la coppia.
Antonella stava terminando l’università quando ha conosciuto Stefano, originario di Bucine nell’aretino. Entrambi erano donatori di sangue e membri attivi dell’Avis. Portavano avanti diversi incarichi nell’ambito dell’associazione, come la diffusione dell’informazione e la sensibilizzazione al tema, che li hanno fatti incontrare. Lo spirito di servizio, l’interesse per il sociale, l’attenzione agli ultimi (Stefano ad esempio era attivo anche nella propria parrocchia e promuoveva iniziative per raccogliere fondi da destinare a missioni benefiche in zone svantaggiate del mondo) li hanno accomunati fin dall’inizio.
Da sempre si sostengono a vicenda. Gatti è laureato in teologia e insegna religione a Pietrasanta al liceo artistico e alle scuole medie. È insegnante alla scuola di formazione teologica per adulti, tiene corsi per fidanzati, fa catechismo, fa parte del consiglio pastorale diocesano.
Il professore ha trovato sempre il tempo per accompagnare Antonella nei suoi tanti spostamenti dovuti a impegni prima di studio, poi di specializzazione e quindi di lavoro. Le ha offerto il proprio aiuto in tante situazioni: ha ad esempio portato farmaci a domicilio a pazienti che erano impossibilitati a ritirarli, l’ha accompagnata in occasione di iniziative di sensibilizzazione e prevenzione circa le malattie infettive tenute in più luoghi, finanche in discoteca; si è recato con lei in Romania, dove la specialista contribuiva a una missione umanitaria di “Earth of the Children”, presieduta dal cardiochirurgo Vittorio Vanini, che opera in favore di bimbi cardiopatici nelle aree più svantaggiate.
La dottoressa Vincenti ha “macinato” chilometri nel corso dei suoi studi e poi dello svolgimento della sua professione. Dopo la laurea in medicina a Pisa, ha scelto di specializzarsi in malattie infettive e ha voluto fare esperienza nel centro clinico di Arezzo dove lavorava un rinomato specialista, Marcello Caremani, fra i primi ad essere anche ecografista clinico. Per questo si è recata là ed è entrata nella scuola di specializzazione dell’università di Siena. “Caremani è stato un vero e proprio maestro per me, mi ha dato l’imprinting. Era un professionista stimolante, con tanta voglia di fare e dotato di grande intelligenza”.
Vincenti poi ha conseguito a sua volta a Roma il diploma di ecografista clinico e ha partecipato a un concorso dell’Istituto Superiore di Sanità ottenendo una borsa di studio sull’utilizzo dell’ecografia nei pazienti affetti da Aids. Con Caremani e insieme ad altri colleghi hanno prodotto uno dei primi libri dedicati al virus dell’Hiv.
“Ai miei tempi la scuola di specializzazione non veniva retribuita, per cui dovevo trovare il modo di mantenermi durante il lungo periodo di studi necessario prima dell’accesso alla professione”, racconta la dottoressa. “Facevo sostituzioni a medici di famiglia spostandomi dalla Versilia al Casentino, più qualche guardia medica. Ho percorso 550 mila chilometri con la macchina di allora, dove avevamo installato un impianto a metano per risparmiare. Sono stati anni belli, durante i quali ero in contatto con persone di realtà diverse”.
Nel ’95, a seguito di concorso pubblico, è entrata come aiuto-medico nel reparto di malattie infettive dell’ospedale Cisanello di Pisa. Nel frattempo ha svolto corsi ulteriori di perfezionamento, quindi, per mobilità, si è trasferita prima nel presidio di Lucca e poi di Massa al fine di avvicinarsi a casa. Verso la fine del 2014 è diventata responsabile dell’unità operativa di malattie infettive dell’ospedale di Massa.
Nel reparto vengono trattate infezioni di diverso tipo: epatiti, tubercolosi, meningiti, endocarditi, infezioni protesiche, Aids. “Con i malati si crea un legame che dura nel tempo”, dice la dirigente. “Non tratta di rapporti che nascono e muoiono con la prescrizione di un farmaco. Anche chi guarisce spesso si ricorda di noi e in occasioni particolari come le feste si fa sentire per un saluto”.
In particolare nel caso dei pazienti sieropositivi la relazione con il medico dura tutta la vita perché le cure devono essere portate avanti ininterrottamente. L’Aids ha fatto la sua comparsa sulla scena mondiale agli inizi degli anni ’80 e non dava scampo, poi la ricerca e le terapie hanno fatto grandi progressi, tanto che oggi è possibile condurre una vita praticamente normale. Tuttavia resta la gravità della malattia, che interessa categorie trasversali di persone, tra cui professionisti, impiegati, soggetti che vivono in situazioni limite, eterosessuali e omosessuali: “Si tratta di una diagnosi che chiude la vita”, commenta la dottoressa Vincenti. “Alla persona che scopre di essere contagiata crolla la speranza di avere una famiglia, di lavorare, sembra inutile studiare e c’è il timore, purtroppo reale, di essere discriminati. Sulla malattia grava, inoltre, una sensazione generale di colpa”.
Per i suoi pazienti la responsabile diventa un’amica, una mamma, una sorella: “Persone anche giovani mi hanno detto che la loro esistenza era finita, ma non è così. Ai miei pazienti spiego cosa devono fare, faccio capire che sono loro accanto e che insieme ci riprendiamo in mano la vita”.
Il medico si adopera da sempre per la rinascita di queste persone: “Tanti miei pazienti hanno trovato anche una persona con cui costruire una famiglia e in alcuni casi hanno dato alla luce dei bambini. L’indicazione – specifica la dottoressa – è di avere rapporti protetti e di non avere figli, ma alcuni non mi hanno dato ascolto. Io naturalmente ho continuato a seguirli. In questi casi è necessario portare avanti dei trattamenti specifici per salvaguardare il nascituro. Devo dire con orgoglio che finora ci sono sempre riuscita. Tutti i bambini che sono nati da coppie a rischio sono negativi”. Mentre la responsabile ci racconta questi episodi si riferisce ai neonati come ai “suoi bambini”, tanta è la delicatezza con cui affronta il suo compito e la gioia di aver reso un servizio essenziale per il benessere di questi nuovi nati.
Il problema della discriminazione resta in primo piano, anche nell’ambito della stessa attività sanitaria. Nel corso della sua carriera la dottoressa Vincenti ha assistito a trattamenti non conformi nei confronti di pazienti sieropositivi che necessitavano di alcuni interventi e ha segnalato gli episodi alle direzioni sanitarie interessate: “Ho constatato che in alcuni casi ci sono stati ritardi nel garantire l’appuntamento necessario al paziente, che sono stati assegnati posti “scomodi” e che si sono verificati spostamenti di orario ingiustificati. Mi sono battuta sempre contro simili comportamenti. Non si può imporre la sensibilità a chi non ne è dotato, ma non si devono scusare l’ignoranza e la paura. Un medico non può tirarsi indietro davanti alle evidenze scientifiche”.
La responsabile fa notare che è importante anche l’atteggiamento che si tiene con i pazienti: “Bisogna dare la mano, senza tirarsi indietro. Sarebbe importante abbracciare chi soffre per questa malattia. L’abbraccio è un segno di accoglienza e partecipazione”.
A seguito di questi episodi, si è fatta promotrice di corsi contro la discriminazione verso pazienti con Hiv in ambito sanitario. Le lezioni, rivolte a operatori del settore, sono state tenute in varie province della Toscana con la collaborazione di colleghi sensibili al tema. È stato anche pubblicato un libro specifico sull’argomento: “Positivo scomodo”, con vari contributi.
Il medico si dedica inoltre ad attività volte alla prevenzione della malattia. Dai primi anni ’90 collabora con il “Movimento per la qualità della vita” con sede a Massa che si occupa di pazienti sieropositivi; coopera con “Anlaids Versilia” andando nelle scuole per rendere informati i giovani e facendo corsi specifici rivolti a operatori sanitari.
Essere attenti alle necessità del prossimo non è solo una predisposizione naturale, ma anche una conquista personale e questa forma di impegno può essere trasmessa con il proprio esempio. È difficile infatti pensare che sia solo una coincidenza che lo zio della dottoressa sia don Antonio Vincenti, parroco di Vallecchia, scomparso nel 2016. “Lui ha fatto della carità la sua vita”, riferisce la nipote. “Era sempre pronto ad aiutare tutti. Dopo che è morto, moltissime persone ci sono venute a cercare per ricordarlo e per ringraziarci per quanto aveva fatto per loro”.
Il ricordo della dottoressa si allarga alla sfera personale: “Mio zio è stato un esempio per me. Con le persone non si fermava all’apparenza, ma andava a vedere sempre quello che di buono c’era in ognuno. Aveva un occhio di riguardo nei confronti di coloro che si trovavano in condizione di necessità e cercava di infondere speranza”.
Nonostante questa forte vocazione personale di dedicarsi al prossimo, don Antonio stesso consigliava alla nipote di ridurre i suoi tanti impegni: “Vedeva che non ero mai a casa perché il lavoro mi assorbiva tanto e mi sollecitava a fermarmi affinché non trascurassi la famiglia”, racconta Vincenti. In questo non è riuscito a convincere Antonella, che però ha la fortuna/il dono di avere un marito che condivide con lei il medesimo spirito di vita.