HIC EST CARITAS

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DI DON PIERO MALVALDI

Ho scritto questo articolo per il bollettino parrocchiale, al ritorno dal pellegrinaggio alla “porta santa” della cattedrale di Pisa dove abbiamo celebrato la liturgia giubilare propria dell’anno santo della misericordia indetto da Papa Francesco.Non ho avuto però spazio per pubblicarlo nei tempi dovuti. Lo propongo dunque oggi certo di farvi cosa gradita.

 

Forte dei Marmi, 21 Gennaio 2016

Cari parrocchiani,

fin da stanotte ho avvertito una forte emozione per l’evento che avrei vissuto in giornata ricordando le mie precedenti esperienze. Indimenticabile, ad esempio, la corsa notturna a Roma con Umberto e il carissimo dottor Michele Aliboni, già colpito da una crudele malattia che lo avrebbe portato alla morte di lì a poco, con la fila dei pellegrini che si apriva per lasciarci passare, noi inginocchiati in terra e lui sulla carrozzella con gli occhi velati dal pianto, tutti insieme a chiedere perdono al Signore; e poi la gioia nel momento del congedo e il pranzo con alcuni amici “onorevoli” in un signorile ristorante a un passo da Montecitorio!

Siamo dunque partiti dal Forte in un clima festoso da gita scolastica, per intenderci, con il sole alto nel cielo a scaldarci dal clima gelido. Tutto si è svolto secondo quanto avevamo programmato: l’ingresso al parcheggio a prezzo scontato in quanto “pellegrini” e poi il tragitto a piedi, in compagnia di un folto gruppo di occhi-a-mandorla, fino alla Cattedrale.

Se dicessi che non sapevo da quale parte iniziare il discorso non sarei troppo lontano dal vero: non sono molti infatti a conoscere con precisione la “dottrina” sul giubileo. Per lo più si limitano a conoscere il significato di “confessione”, “penitenza” e “perdono”. Altri termini quali appunto “giubileo”, “indulgenza”, “attrizione” “contrizione”, “soddisfazione”, “pena”ecc. che pure sono termini teologici essenziali risultano ai più completamente oscuri.

A ciò si aggiunga il fatto che certi episodi della storia della chiesa, conosciuti in modo approssimativo, hanno pesantemente e purtroppo negativamente influito sul significato autentico del giubileo e in particolare dell’indulgenza.

Ad esempio non più tardi di qualche giorno addietro mi sono sentito dire dal mio amico XYZ, simpatico ma miscredente: “ Non la finite più con queste menate sulle indulgenze…! Non vi è bastato Lutero? Parlate della misericordia come fa Francesco (sarebbe il Papa) e lasciate perdere il resto”.

Ora, premesso che anche papa Francesco parla di indulgenza c’è da dire che la teologia è una disciplina e dunque come tutte le altre discipline dispone di una  terminologia specifica che può essere conosciuta solo da chi la studia seriamente.

Ho provato quindi a dire qualcosa cercando di restare nel solco della dottrina cattolica e al contempo d’essere compreso anche dai profani.

Ho spiegato dunque prima di tutto l’antica usanza ebraica dell’anno “shabbat” cioè dell’anno sabbatico in cui, con grande gioia di chi ne usufruiva, i debiti venivano condonati, gli schiavi recuperavano la libertà, i clan familiari componevano le dispute, le famiglie si ricongiungevano, la terra veniva fatta riposare… Al suono del corno “yobel”(da cui il latino jubilum e l’italiano giubilo) che segnava l’inizio dell’anno di grazia, il popolo esplodeva in canti di gioia e di lode al Signore.

Secoli dopo la Chiesa, facendo proprie le antiche parole di Isaia relative all’anno di grazia, parole riprese poi da Gesù in persona, ha riproposto il giubileo come evento di gioia sebbene con un significato spirituale: le catene sciolte sono le catene del peccato e i debiti rimessi sono tutte quelle cattiverie piccole e grandi che segnano la nostra vita.

Da notare – e qui si entra nel vivo della questione – che un tempo coloro che si macchiavano di peccati – gravi, si intende- venivano esclusi dalla frequentazione pubblica della chiesa, e se ne stavano fuori fino a scontare personalmente la pena inflitta; solo dopo ricevevano il perdono e potevano accedere alla chiesa.

Non era come oggi che la pena/penitenza viene proposta dopo aver ricevuto il perdono e si tratta generalmente di una preghiera o qualcosa di simile e comunque di così blando da rischiare la banalità.

E invece i nostri peccati, in particolare le nostre cattiverie meriterebbero ben altro con tutte le conseguenze fatte di dolori, sensi di colpa, rimorsi, paure che si portano dietro.

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Ora con il giubileo che cosa succede: succede che noi riconosciamo i nostri peccati, invochiamo il perdono, lo otteniamo nel sacramento della riconciliazione e la Chiesa, per i meriti di Gesù che ancora una volta si prende sulle spalle la croce/pena dei nostri peccati, ci spalanca la porta accogliendoci e liberandoci dall’oppressione psicologica data dal ricordo delle colpe, sebbene già confessate e perdonate, (indulgenza per i viventi) e, per i defunti, liberandoli dalla sofferenza interiore avvertita dalla loro anima che attende ancora l’incontro pieno con Dio (indulgenza per i defunti).

È chiaro che per poter gustare appieno la gioia del giubileo è necessario ricevere il perdono sacramentale: e qui mi sono affannato a chiarire il significato  della confessione in cui il Signore, tramite il suo ministro, lenisce le nostre sofferenze e ci incoraggia a riprendere il cammino.

Ho spiegato infine che, avendo Gesù acquistato la nostra liberazione a caro prezzo, si aspetta da noi un minimo di riconoscenza ed ecco allora l’importanza delle opere di misericordia prima fra tutte il servizio della preghiera per i nostri cari, vivi e defunti, che rappresentano il volto sofferente di Gesù (riparazione).

Finito il discorsetto siamo entrati in chiesa varcando una porticina semplice e spoglia posta nel transetto di destra, a fianco dell’altare di San Ranieri, patrono di Pisa: una vera “porta santa” perché ci ha comunicato quasi una scossa elettrica tanto che alcuni non sono riusciti a trattenere le lacrime: in effetti in quel momento ci siamo sentiti dei privilegiati in quanto personalmente oggetto dell’amore di Dio.

I sacrestani, gentilissimi, hanno acconsentito a farci celebrare all’altare del SS.mo Sacramento -mai mi era accaduto nel passato, nemmeno in qualità di concelebrante – ed è qui che ho scorto la frase che dà il titolo all’editoriale, frase che mi ha toccato profondamente.

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L’altare in questione è realizzato in argento massiccio: le gràdule superiori (dove stanno i lumi e i fiori, per intenderci) riportano a sbalzo episodi della passione e morte di Gesù mentre al centro, proprio sopra il tabernacolo, è incisa la scritta HIC EST CARITAS ossia QUI STA L’AMORE.

La frase, nella essenzialità tipica della lingua latina mi ha colpito nell’intimo: lo stesso Signore che mi aveva offerto il perdono e l’indulgenza si faceva ora dono nel pane consacrato, pegno d’amore eterno per la sua creatura.

La celebrazione è risultata molto commovente e partecipata: “Jubilate Deo, cantate Domino…”: sembrava d’essere in San Pietro con il m° Gabriele all’organo monumentale e tutti noi a cantare a squarciagola la bontà del Signore.

Unica nota stonata (sic) una mia stecca nell’assolo… che ha fatto precipitare le mie quotazioni canore peraltro immediatamente risalite nel frugale pranzetto consumato in una modesta trattoria di campagna…

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