Storie vere di ieri e di oggi salgono sul palco insieme alla loro autrice Elisabetta Salvatori, affermata esponente del teatro di narrazione. Una ricerca storica e uno studio approfondito sono alla base della stesura dei testi che spaziano dal tema sacro a quello civile alle storie di passioni. L’attrice stabilisce col pubblico una forte empatia, frutto di una preparazione accurata e di una carriera densa di esperienze, sospinta dall’amore per il racconto “quel sapere povero che tutti conoscono”.
di Silvia Cecchi
In una nicchia nel muro del giardino dell’abitazione di Elisabetta Salvatori ci sono dei libri, disponibili per i passanti, che non aspettano altro che venire presi per essere letti. Noi temiamo che possano sparire del tutto, invece la padrona di casa è molto tranquilla: i volumi tornano e per di più ne arrivano anche altri. La piccola libreria si affaccia su via Carrara. Quando ci presentiamo per l’intervista il cancello è aperto. Ci chiede di lasciarlo così. Fiduciosa, ci viene da pensare. Lei però è già avviata verso l’interno, senza ripensamenti.
All’esterno l’abitazione è arricchita da diverse sculture e sulla facciata, così come sul muro di confine del giardino, spicca una decorazione colorata. Sembrano maioliche, invece si tratta di un lavoro fatto a mano dalla stessa Elisabetta, che è una professionista anche in campo pittorico.
Infine, entrando in casa, si passa attraverso un vero e proprio teatro: c’è una pedana per la recitazione, con una scenografia suggestiva che è costituita da una calda parete da salotto; ci sono diverse poltroncine per assistere allo spettacolo, con caratteristiche sedute, organizzate su più livelli. I posti sono tutti riservati: su ciascuno è riportato il nome dello spettatore che si è prenotato per lo spettacolo che andrà in scena la sera stessa: “Piantate in terra come un faggio o una croce: Caterina da Siena e Beatrice di Pian degli Ontani”.
Si tratta di una delle opere preferite dalla stessa autrice-attrice: “Mi avevano chiesto di lavorare su Beatrice di Pian degli Ontani, ma il testo da sé non funzionava”, racconta Salvatori. “Io nel frattempo volevo scrivere di una santa, così mentre studiavo la biografia di Beatrice portavo avanti una lettura su santa Caterina. È stato un caso: sono rimasta colpita da alcuni particolari che ricorrevano nelle due storie e da lì è nata l’idea di un’opera unica dedicata a entrambe le figure, nella quale l’una esalta l’altra”.
Tratteniamo a lungo l’attrice a colloquio, tanto che alla fine è costretta ad affrettarsi per le prove in modo da accogliere al meglio il pubblico della sera. Lo spettacolo è collaudato, ma la passione per il proprio mestiere e l’amore per gli ospiti che hanno scelto di assistere alla rappresentazione, pretendono dalla creatrice la massima attenzione. “Uno spettacolo si fa col pubblico. Questo compie l’azione di venirti a vedere e io col mio impegno lo ringrazio per questo e per l’affetto che mi dimostra”.
Lo stile di Elisabetta Salvatori è narrativo: sul palco c’è la parola, la storia. L’attrice va in scena da sola, vestita in modo semplice, scalza in segno di rispetto per le storie delle vite che racconta. Quando recita è molto vicina al pubblico. Di frequente l’allestimento scenico prevede una quadratura nera e l’utilizzo di luci dalle tonalità calde. A fianco a lei c’è il maestro Matteo Ceramelli, che l’accompagna col violino. I due, nell’essenzialità della forma, incantano il pubblico.
Le chiediamo se questa vicinanza fisica con gli spettatori non le metta un po’ di paura, nonostante la sua maestria: “No, mi trovo a mio agio”, risponde. “C’è sempre un brivido, ma è di responsabilità e amore verso il pubblico. Probabilmente proprio la semplicità della scenografia permette di creare empatia. Io voglio vedere le persone, guardarle in volto, rivolgermi direttamente a loro. Non gradisco lavorare sotto la luce con la platea in ombra”.
Dietro alle rappresentazioni di Salvatori c’è davvero un grande lavoro. In generale i suoi spettacoli richiedono un anno di tempo per essere portati in scena. Si tratta, infatti, di narrazioni tratte da vicende vere, che dunque contemplano una ricerca storica e un’indagine approfondita. Il racconto, poi, va reso veloce, snello.
L’interprete porta i suoi spettacoli nei teatri, nelle rassegne, nelle piazze, nelle cave, oltre che a casa sua. “Non salgo con spavalderia sul palco, ma neanche con timore. La possibilità di sbagliare non mi destabilizza. Siamo persone vive, vere. Non è una registrazione, non si scelgono le inquadrature migliori. Ogni sera è irripetibile e non sai mai come andrà. Per il pubblico è lo stesso, si porta dietro la sua giornata e il suo periodo”.
I particolari che circondano l’attrice sono importanti e descrivono la sua storia in modo più immediato di altro, ma noi, talmente presi dalla precisione della ricostruzione delle sue tappe professionali, ce ne accorgiamo solo verso la fine. Come l’esterno della casa, anche l’interno la rappresenta: alle pareti fotografie e ricordi di persone care, scatti professionali, immagini religiose. Da uno scaffale tira fuori un quaderno che le ha regalato una sua spettatrice affinché vi scriva e porti avanti il suo lavoro di narrazione. Elisabetta ha incollato nell’ultima pagina il bigliettino con la dedica, che ha apprezzato molto perché dà valore al suo impegno e la stimola a offrire il suo talento al pubblico.
Mentre parliamo, siamo sedute a un bel tavolo di legno antico. Era della sua bisnonna paterna, che certamente le ha trasmesso questa dote del racconto. Giuseppina Silvestri, nata in Versilia nel 1881, aveva capacità comunicative sorprendenti ed è rimasta indelebile nella memoria di chi l’ha conosciuta e ha tramandato il suo ricordo. Giovane vedova, rimasta sola con due figli, coi pochi soldi che aveva comprò un revolver e un grammofono per ascoltare musica. La sera raccontava storie, facendo della sua casa un teatro e la gente andava da lei per sentirla improvvisare racconti diversi. La prima narrazione di Salvatori tratta dalla realtà è stata proprio incentrata sulla vita della sua bisnonna, “La bella di nulla”. Non tutti in famiglia apprezzavano le caratteristiche di Giuseppina, considerata un po’ stravagante, compreso il suo desiderio di giustizia e di vendetta per la morte del marito deceduto in mare a largo dell’isola del Giglio dopo che il veliero sul quale era imbarcato era stato speronato da una nave, che non aveva prestato soccorso ai naufraghi. Elisabetta è riuscita a ricostruire la sua storia dai racconti di alcuni familiari, da persone del paese che andavano la sera a casa di Giuseppina e anche dal processo relativo all’incidente in mare. “La mia bisnonna aveva delle sapienze e diventò brava nella narrazione. Io in fondo faccio quello che si faceva allora quando ci si trovava dopo cena per le veglie: le persone si incontravano in estate nell’aia e in inverno accanto al fuoco per ascoltare storie e racconti di fatti. La narrazione prendeva il tempo che oggi è occupato dalla tv”.
L’attrice nel tempo si è concentrata totalmente su vicende vere, che hanno quasi tutte a che vedere col territorio toscano: “È un modo per conoscere meglio la mia terra e per amarla di più. In certi momenti della narrazione ricorro anche al dialetto locale. All’inizio non lo apprezzavo, ma poi l’ho riscoperto e riutilizzato: è caratterizzato da immagini, è doloroso, ha poesia”.
Accade anche in “Scalpiccii sotto i platani”, la narrazione sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, dove la popolazione è ‘fori di sentimento dal dolore’. Questo spettacolo è quello più richiesto e rappresentato in virtù delle ricorrenze e della funzione educativa nelle scuole.
L’autrice, prima che si tenesse il relativo processo, ha raccolto le testimonianze dei superstiti e svolto un’attività di ricerca storica scrupolosa. Con le persone di S.Anna ha instaurato un legame di affetto e fiducia. In occasione di alcune sue rappresentazioni si sono verificati episodi commoventi di riappacificazione: “È molto bello quando da una vicenda brutta fiorisce del bene”, dice l’artista.
Insieme a Marco Paolini, il più noto esponente contemporaneo di teatro di narrazione, ha reinterpretato un estratto di “Scalpiccii” da Sant’Anna di Stazzema per la diretta Rai nell’ambito della trasmissione “Viva il 25 Aprile” del 2015.
Sono stati, poi, i parenti delle vittime della strage alla stazione di Viareggio a contattarla per raccontare la loro storia. Elisabetta Salvatori li ha incontrati singolarmente e ha fatto proprio il loro dolore, trasformandolo nel racconto “Non c’è mai silenzio”. Lo spettacolo descrive la strada la sera prima dell’incendio con le storie di coloro che ci vivevano. “Queste persone mi hanno messo in mano la loro ferita ancora aperta. Occorre molta attenzione nel lavoro di scrittura perché basta una parola sbagliata e si rischia di riaprirla. Ogni volta che entro nella storia dei personaggi dei quali narro si crea un legame, diventano parte della mia vita”.
Altre opere molto amate dall’autrice sono “Viola” sulla vita di Dino Campana, che ne racconta con commovente rispetto l’esistenza complessa e sofferta, con la sua infanzia particolare, gli anni di manicomio, la poesia. “La bimba che aspetta” è dedicato al suo ex marito, Edoardo Dini, che era un apprezzato scultore. La narrazione ruota attorno alla storia della bambina che posò per l’opera, un’edicola di marmo eseguita alla fine dell’Ottocento, collocata nel cimitero di Viareggio, e della passione creativa del suo scultore. Si tratta di un viaggio nelle cave, nel marmo e nel vissuto dei protagonisti.
Il più recente lavoro “Piccolo come le stelle”, rappresentato in prima nazionale al teatro del Giglio di Lucca, è incentrato sulla vita di Giacomo Puccini. La principale fonte di documentazione dell’autrice sono sono stati gli epistolari del compositore, che in vita scrisse più di ottomila lettere. È un percorso nell’intimità dell’artista, che, nonostante il successo, si misurava con l’insicurezza e il senso di solitudine.
Le narrazioni alle quali ha dato vita l’attrice sono molte: “Vi abbraccio tutti”, partenze e ritorni sulle strade dell’Appennino; “Fiero come un’Aquila”, il mondo libero di Antonio Ligabue; “Calde Rose”storie di amore e di passioni; “In viaggio, storie in valigia”. A questo genere si aggiungono letture sacre, come ad esempio il vangelo di Marco e l’Apocalisse, più testi dedicati ad alcune mistiche. “Sono credente, ho un bel rapporto con la fede”, dice l’autrice. “È un mio riferimento costante. L’attività che svolgo gira attorno a questo aspetto e io ne sono felice. In più ritengo che sia un modo per manifestare gratitudine per il talento che mi è stato concesso”.
Il dono della scrittura e della recitazione è stato scoperto da Elisabetta verso i ventitré anni. Il suo percorso formativo era iniziato in modo un po’ diverso. Nata nel luglio del ’63, ha frequentato l’istituto d’arte a Pietrasanta e l’Accademia di belle arti per tre anni a Carrara e l’ultimo anno a Milano. La passione per la pittura si è sviluppata in lei quando era ancora piccola, dovendo praticare attività tranquille a causa dell’asma. L’interesse di bambina è maturato nel tempo, tanto da scegliere istituti specifici, nonostante le perplessità dei genitori. All’Accademia, dove spiccano materie come storia dell’arte, anatomia, disegno e tecniche pittoriche, ha trovato insegnanti di livello, fra i quali ricordiamo gli artisti Getulio Alviani e Luciano Fabro. Con quest’ultimo in particolare Salvatori ha stabilito un rapporto formativo importante, tanto da decidere di seguirlo l’ultimo anno a Milano, dove il professore si era trasferito. “Era esigentissimo e molto severo, tuttavia mi sono sentita presa per mano e considerata con stima. Il suo insegnamento mi ha molto arricchita, tanto che una volta terminato il percorso di studi ho aperto un piccolo studio di pittura e per un anno sono riuscita a vivere di arte”. Salvatori eseguiva principalmente lavori su commissione, ma il suo desiderio era di realizzare una mostra di opere proprie. Nel cercare l’ambiente adatto dove poter esporre, si è soffermata su uno spazio vicino alla parrocchia di Vittoria Apuana, dove aveva da poco preso il via un corso di teatro diretto dall’attrice Raffaella Panichi. Mentre aspettava di prendere accordi, ha assistito alla rappresentazione del V canto della Divina Commedia, interpretato da un’allieva esperta di Panichi. “Ha fatto arrivare Paolo e Francesca lì. Sono rimasta folgorata”, racconta Elisabetta. “Con gioco di voce, sussurri, silenzi ha trasformato un linguaggio difficile in un messaggio estremamente attuale. Quel momento ha rappresentato uno spartiacque nella mia vita: ho capito che la mia strada era quella e che volevo concentrarmi sul racconto e l’interpretazione”.
Nonostante lo stupore dei genitori, perplessi dal repentino cambiamento di programmi della figlia, da quel momento Elisabetta si è dedicata alla recitazione seguendo corsi specifici: “Ho avvertito quanto con le parole si potesse fare. Ho avviato questa impresa a piccoli passi, ma con determinazione. Ho iniziato con fiabe e racconti di fantasia. Avevo un bimbo piccolo e mi è venuto naturale ispirarmi alle narrazioni per l’infanzia. In passato, inoltre, avevo spesso scritto poesie e storie, pur senza pensare di farle leggere a nessuno”.
Col tempo è diventato un lavoro. In accordo col Comune di Forte dei Marmi per undici anni ha organizzato una rassegna teatrale estiva in piazza Dante, che è arrivata a contare trentasei spettacoli per edizione. Nel frattempo è stata chiamata a tenere corsi di teatro anche all’estero. Tra le sue attività, è stata prima allieva e poi assistente di Otello Sarzi, maestro del teatro di figura. Negli ultimi cinque anni è stata direttore artistico del teatro Scuderie Granducali di Seravezza.
Dalla narrazione di fantasia iniziale è passata a quella della realtà: “Di ritorno da un corso di burattini che avevo tenuto in Bosnia, a Mostar, quando ancora c’erano i carri armati, percepii che il mio interesse non era più rivolto alle fiabe, ma alla rappresentazione di storie vere”. Si è concentrata nel lavoro di ricerca, studio e interpretazione, ponendosi di fronte al pubblico senza mediazioni. “Non ho mai pensato di inserirmi in una compagnia teatrale. Non sono chiusa, anzi sono convinta che la collaborazione sia arricchente, ma occorre trovare la sintonia giusta. Se avverto che un lavoro o un modo di lavorare non mi corrispondono, non mi ci impegno”.
La sintonia è scattata invece con il maestro Ceramelli, conosciuto per caso durante le prove a S.Anna su “Scalpiccii”. “Quando trovi la persona giusta è bello condividere l’attività. Il pubblico è abituato a vederci insieme. Siamo molto amici e professionalmente è un compagno prezioso. Siamo tutti e due innamorati di queste storie. Utilizziamo due linguaggi diversi, io la recitazione e lui la musica, che compone appositamente per gli spettacoli. Il nostro stile è l’immediatezza e la semplicità. I nostri spettacoli possono essere seguiti anche dai bimbi”.
In conclusione un accenno alle persone care che hanno sostenuto l’attrice nel suo percorso: la sua famiglia d’origine, l’ex marito, il figlio Gabriele e l’attore Carlo Monni, con il quale ha avuto un rapporto affettivo e di stima professionale importante. “Oggi sono una donna sola, ma molto serena”, conclude l’attrice. “Ho una vita piena, ho il privilegio di potermi occupare di ciò che mi interessa e mi sento appagata”.