Mentre ci dibattiamo fra gli affanni quotidiani, cercando di reggere il ritmo sempre più veloce del mondo, c’è chi prega per noi.
Da luoghi ritirati salgono infatti una lode e una supplica costante al Signore per i suoi figli nelle diverse circostanze della vita.
Le monache dell’ordine cistercense della stretta osservanza di Valserena hanno scelto di dedicarsi a questo servizio, fisicamente separate dalla collettività, ma unite alla stessa nello spirito. La loro tensione d’amore per Dio si concretizza nella carità verso i fratelli, che le madri spirituali assistono con la preghiera.
di Silvia Cecchi – intervista realizzata ad aprile 2015
“Occorre credere sul serio nell’amicizia con Cristo e pensare a Dio come qualcosa di vero e concreto”. È quanto sostengono le monache appartenenti all’ordine cistercense della stretta osservanza (Ocso) di Nostra Signora di Valserena, che si distinguono per il servizio della preghiera offerto a Dio per il mondo.
La scelta di vita contemplativa, che si caratterizza per uno stile ritirato dalla società, costituisce un atto di amore. La loro spiritualità è centrata infatti sulla carità, così come stabilito dai primi trattati della riforma di Citeaux che nel XII secolo portò alla riscoperta autentica della regola di san Benedetto. “Ora, lege, labora” sono i cardini dell’Ocso, che si basa sull’orazione, sullo studio-meditazione e sul lavoro.
A introdurci su tutto questo è suor Maria Francesca Righi, presente dal 1977 nel monastero che si trova sulle colline di Cecina, dove fu fondato nel 1968.“Anticamente i padri traducevano la parola carità proprio con amicizia, – spiega la religiosa – riferendola al rapporto con Cristo, che diventa di conseguenza amicizia fra gli uomini. Possiamo paragonare il concetto ai due bracci della croce: la tensione verso l’alto si interseca con quella verso i fratelli”.
Incontriamo le monache nel corso della nostra ricerca dedicata alla carità proprio perché le suore, facendo della lode e della supplica il centro della loro esistenza, rendono un servizio a favore di tutta l’umanità. La preghiera scandisce ogni loro giornata. Si alzano fin dalla notte per meditare la Parola e lodare il Signore, secondo tempi stabiliti dalla liturgia delle ore, e durante il giorno alternano il lavoro alla preghiera. Come suor Maria Francesca ci spiega, la ‘carta d’identità’ del loro ordine è appunto di essere scuola di servizio del Padre.
Assistendo ai loro momenti di raccoglimento è possibile sentirle raccomandare a Dio gli ammalati, i giovani, i consacrati, i cristiani perseguitati, le famiglie.
“Non ci rivolgiamo al Signore per i nostri interessi personali, – spiega la suora – ma per il mondo. La nostra comunità monastica si raduna in chiesa ed offre questo spazio a chiunque voglia condividere con noi questa forma di carità. Con il servizio orante non compiamo un gesto privato, ma entriamo nella preghiera della Chiesa e di Cristo, che intercede per noi verso il Padre”.
Sulla carta la spiegazione può risultare un po’ complessa, come pure l’impatto con la pratica liturgica, che appare piuttosto formale al primo approccio. Per chi, come noi, non è pratico di questa scuola di preghiera di alto livello occorre attenuare la tendenza al controllo e alla ricerca di comprensione immediata, concedendosi di seguire con fiducia le madri spirituali nei momenti di raccoglimento.
Tornando al nostro colloquio, chiediamo alla monaca se ritiene che la preghiera abbia davvero una ricaduta benefica per l’umanità: “Secondo me sì – risponde –. Ci sono dei momenti in cui la presenza di Cristo è come palpabile. Ci sono altri momenti in cui è opaca e noi siamo chiamati a crescere”. Poi precisa: “L’effetto della preghiera è prima di tutto la conversione personale, al di là dell’intenzione di cui il Signore tiene conto. È un’esperienza di perdono e di accoglienza. Supplicare ad esempio il Padre perché converta i cuori di coloro che seminano terrore e morte nel mondo significa, infatti, desiderare di perdonarli”.
Le madri portano a un tipo di vita radicale quella scelta fondamentale che tutti i cristiani fanno la notte di Pasqua: rinunciare a Satana e credere a Cristo. “Con i voti – spiega suor Maria Francesca – intendiamo offrire la nostra libertà al Padre, che ci ama e da cui ci sentiamo chiamate”.
Per molti di noi però, persone comuni immerse nella frenesia del mondo, risulta difficile trovare una dimensione di silenzio e predisporci all’ascolto: “Dobbiamo renderci conto che non sappiamo pregare: non sappiamo di cosa abbiamo bisogno e non crediamo possibile ricevere ciò di cui necessitiamo – dice la religiosa –. Tuttavia, se accettiamo di mettere questa nostra indigenza davanti allo sguardo di Cristo, qualcosa succede. È importante lasciare che il suo sguardo ci raggiunga dove noi non sappiamo neanche guardarci”.
Si torna dunque al concetto di fiducia, anche se, come facciamo notare alla monaca, non è semplice allentare il controllo. Lei ne è consapevole, ma, mentre si allarga in un sorriso, consiglia di “fidarsi un attimo e di mollare il timone della barca, soprattutto quando si è sbagliato e nonostante ciò si pensa di essere bravi a guidare”.
Suor Maria Francesca è incaricata della formazione e della comunicazione. Cura conferenze, letture e aggiornamento per le sorelle di Valserena; si occupa del sito Internet dell’Associazione Nuova Citeaux (www.vitanostra-nuovaciteaux.it), le cui finalità sono favorire la conoscenza della cultura benedettino-cistercense all’interno delle realtà monastiche e all’esterno, nell’espressione sia della vita concreta delle relative comunità sia nel patrimonio di spiritualità che i loro padri e madri hanno lasciato.
Oltre ciò, da vent’anni è maestra delle giovani professe, segue cioè le aspiranti monache nel triennio di formazione previsto per il passaggio dalla professione semplice a quella solenne (definitiva). Come la religiosa ci spiega, si tratta di un periodo delicato, in cui spesso emergono delle crisi, collegate a problemi non risolti: “Anche in questo caso ciò che si rivela di maggiore sostegno è pregare insieme. Invece di fare tanti discorsi, il raccoglimento aiuta a prendere le distanze dal problema, a rasserenarsi, consentendo di vedere con maggiore chiarezza”.
Il nostro incontro con suor Maria Francesca avviene in parlatorio, ovvero in alcune sale dedicate ai colloqui con le monache. Salvaguardando la propria specificità, che consiste appunto in una scelta di vita fisicamente separata dalla collettività, le religiose, in quanto unite al mondo nello spirito, cercano di rendersi disponibili verso le necessità del prossimo (la loro regola prevede espressamente l’accoglienza dei pellegrini) e verso le nuove esigenze che si manifestano nell’ambito dei cambiamenti della società, compreso l’utilizzo ragionato delle nuove tecnologie. In quest’ottica va ricordato che certe aperture nell’ambito dell’organizzazione concreta della vita contemplativa sono state rese possibili grazie ai cambiamenti introdotti dal Concilio Vaticano II.
Questo, dunque, è ciò che si rende necessario alla nostra latitudine, ma ad esempio le monache dell’Ocso che sono presenti in Angola e Siria, nell’ambito di due fondazioni che derivano proprio dal monastero di Valserena, non hanno esitato a dar da mangiare ai poveri negli anni di guerra, a scendere in strada a seppellire i morti, ad offrire aiuti concreti e servizi di catechesi ai bisognosi.
La clausura per loro è un mezzo e non un fine. Indica la ricerca della purezza di cuore, la scelta consapevole di una vita interiore rivolta alla meditazione e alla lode, senza essere sollecitate continuamente da fattori esterni.
Le suore che abbiamo incontrato si mantengono col proprio lavoro. Dispongono di quaranta ettari di bosco, di un frutteto, di un orto, di un uliveto, secondo la tradizione agricola che caratterizza l’ordine. Tuttavia questo non basta per il sostentamento della comunità e così nel tempo è stata sviluppata anche una piccola industria artigianale di profumi, creme, saponi e altri prodotti, che vengono venduti tramite diversi canali, per corrispondenza e via Internet. Quest’anno per la prima volta i prodotti di Valserena sono “sbarcati” anche alla mostra dell’artigianato di Firenze, con uno stand dedicato alle produzioni delle religiose.
Fin dalle origini della regola benedettina il lavoro ha rappresentato, oltre che una forma onesta di mantenimento, un’occasione fondamentale di educazione alla collaborazione per il bene comune e all’impegno, nella presa di consapevolezza della dignità che c’è nella fatica e nel servizio.
Le monache che abbiamo intervistato sono laureate e decisamente colte, “ma la nostra fama – racconta suor Maria Francesca – è quella di essere delle zappatrici, vista la nostra spiritualità fatta di lavoro e sacrificio. Nel XX secolo abbiamo recuperato”.
La maestra delle professe ha sessantaquattro anni ed è originaria di Milano, dove da giovane ha conseguito la laurea in filosofia della storia all’università cattolica del Sacro Cuore. Una scelta, questa, tutt’altro che scontata, a differenza di quanto si può pensare, perché i suoi genitori erano sostanzialmente anticlericali. “Il mio incontro col Signore – racconta – è avvenuto nel corso del liceo, durante gli anni caldi del periodo. Proprio a causa dei ribollimenti di quel momento storico la mia classe venne sciolta e io fui inserita in una scuola dove trovai persone profondamente cristiane, che mi colpirono per il loro modo di pregare insieme e che mi fecero sperimentare il senso di una fede viva. Al termine del percorso di studio, per accontentare i miei genitori frequentai per un anno l’università statale, poi finalmente potetti passare alla Cattolica dove entrai in contatto con il movimento di Comunione e Liberazione e dove ebbi la fortuna di avere grandi insegnanti e pensatori, come don Giussani”.
Come si può facilmente immaginare e come la religiosa ci conferma, per i suoi genitori la sua scelta di farsi monaca fu uno choc. “Anche se la differenza tra noi è rimasta, – commenta – il nostro rapporto è diventato più profondo e più serio”.
In linea col carisma dell’ordine cistercense, in monastero ha svolto ogni tipo di lavoro necessario, dalla pastorizia alla lavanderia alla cucina a turno.
Le chiediamo qual è la sua impressione sulla società contemporanea: “Oggi il modo di pensare abituale della gente comune a un oltre, alla spiritualità, è vago e soggettivo, legato al sentimento del momento – risponde –. Occorre educare le persone a pensare a Dio come qualcosa di vero, che tocca la persona umana. Prima nella società e nelle famiglie venivano gettate le basi per questo, invece nel nostro tempo manca una simile risonanza e si avverte una totale assenza di preparazione. Questa forma di pigrizia metafisica porta all’accidia e alla depressione”.
Per tale ragione le monache si rendono disponibili a farsi avvicinare e a farsi strumento di conoscenza di Cristo, perché credere nella paternità e nella maternità spirituale significa mettersi a disposizione della gente.
“La nostra comunità monastica rappresenta un esempio di amore fedele – dice la religiosa –. Testimonia la possibilità di un legame capace di durare tutta la vita”. L’ordine benedettino-cistercense ha retto ai cambiamenti dei secoli proprio per il suo carisma chiaro. Le monache oltre ai tre voti classici di povertà, ubbidienza e castità, si impegnano anche nella stabilità e nella conversione. La stabilità rappresenta la fedeltà alla comunità e al luogo, la conversione il cammino continuo nella maturazione della propria fede in Dio.
A proposito di amore fedele, è in corso l’anno dedicato alla vita consacrata, che si tiene a cavallo dei due sinodi sulla famiglia e a Valserena ogni mattina le monache pregano per i nuclei familiari e perché il sinodo possa funzionare bene. Le suore, raccogliendo l’invito che papa Francesco ha rivolto ai religiosi in occasione della ricorrenza loro rivolta, guardano al passato con gratitudine, vivono con passione il presente e abbracciano il futuro con speranza. Come riportato fra i documenti pubblicati sul sito dell’Associazione Nuova Citeaux, si tratta di un compito non scontato, perché nella nostra società si rischia di guardare al passato con nostalgia, al presente con smarrimento e al futuro con incertezza.
Il monastero di Valserena, guidato dalla madre badessa Monica Della Volpe, conta una quarantina di monache di diverse età, sei delle quali hanno meno di quarant’anni. Si dimostra una realtà viva e fertile, in controtendenza rispetto a una diffusa carenza di vocazioni (http://www.valserena.it/).
Sul “segreto” di questo centro fa luce suor Valeria, professa semplice dell’ordine, che tra circa un anno emetterà i voti solenni: “Non è tanto l’età anagrafica che fa la comunità, ma la sua apertura alla vita. A Valserena ho trovato una capacità di accompagnamento, che spicca rispetto ad altrove. Le monache sanno valorizzare le persone e offrire insegnamento. Ho fatto esperienza di un ambiente accogliente e materno. Spero anch’io di poter fare altrettanto in futuro per altri”.
La religiosa, che proviene dalla provincia di Varese e da una famiglia cattolica praticante, non ha una visione d’altri tempi, perché ha trentadue anni e dunque il suo punto di vista è strettamente collegato alla modernità. Le chiediamo, sicuramente in modo un po’ semplicistico, perché abbia preferito ritirarsi in monastero invece di condurre un tipo di vita attiva: “In passato a questa domanda mi ero risposta che era meglio fare qualcosa di concreto – dice –. La clausura mi faceva paura e ritenevo più giusto impegnarsi attivamente per il prossimo. Al liceo una delle mie migliori amiche scelse di entrare in convento e la sua decisione mi lasciò turbata. Mi dissi che non avrei mai fatto quel tipo di vita”.
Come reazione alla scelta della sua compagna in passato Valeria si è data molto da fare nell’ambito della sua realtà parrocchiale, facendo catechismo e animazione per i ragazzi, partendo in missione per l’Albania e così via. Ha fatto esperienza di una relazione affettiva importante, si è laureata in sociologia e per un periodo ha svolto la professione di insegnante. “Sono state vicende molto belle, ma non avvertivo piena chiarezza e oggi posso dire che non mi ci giocherei la vita”, commenta. A seguito di un infortunio, che la costrinse a fermarsi e a stare a casa per alcuni mesi da sola, si è resa conto che proprio ciò che le faceva paura rappresentava la sua strada.
Le chiediamo come vive la solitudine e il silenzio che fanno parte della vita monastica: “La solitudine è una dimensione interiore di silenzio e raccoglimento, che ci può essere anche mentre si svolgono vari servizi. Permette di stare in contatto col Signore e di portarlo nelle diverse circostanze della vita”.
La professa è incaricata di occuparsi per metà giornata dell’infermeria e per l’altra metà della foresteria. Il monastero infatti accoglie frequentemente ospiti esterni, anche per più giorni, che trovano spazio in una bella struttura adiacente alla clausura. Suor Rosalia, che è la responsabile principale di questo servizio, si fa notare, pur non volendo, per delicatezza e gentilezza con tutti.
“La preghiera è un atto gratuito d’amore e ti apre all’altro – dice suor Valeria –. Io ci sono stabilmente e ci sono per tutti, sia per coloro che si sentono rassicurati dal sapermi qui, sia per coloro che lo considerano superfluo”. “Una vita – commenta rispondendo a un’altra nostra domanda – non può essere utile o inutile. L’uomo è creato per essere. Ogni piccolo gesto ha una risonanza per gli altri e io sono qui perché sento che mi è chiesto e lo faccio per qualcuno che mi ama”.
Secondo la giovane religiosa nel contesto contemporaneo è normale tentennare davanti a un tipo di vita radicale come quella monacale. Lei, che è entrata in contatto con questa realtà tramite Internet, consiglia a chi avverte questa curiosità di venire a vedere e accertarsi di persona, “perché c’è qualcosa di bello e il Signore si fa capire”.
A questo scopo la comunità di Valserena ha deciso di organizzare una settimana monastica per giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni. “Si tratta di una proposta per coloro che vogliono fare un’esperienza di preghiera, silenzio e lavoro, senza essere lasciate a se stesse – spiega suor Maria Grazia Petri, maestra delle novizie –. Offriamo il nostro accompagnamento e una catechesi idonea per facilitare il contatto con la nostra realtà, che altrimenti può risultare difficile. In questo modo vogliamo dare la possibilità a chi lo desidera di provare a vivere respirando l’aria monastica”.
La religiosa ci spiega che tutti i giovani hanno una domanda dentro, un desiderio di assoluto, di vero e di bello, che li porta a interrogarsi. Nel riferirsi alla gioventù, però, sottolinea che non si tratta tanto di una questione anagrafica, ma piuttosto di una giovinezza del cuore, che permette di saper cogliere la novità che irrompe interiormente: “Il monastero è una grande ricchezza, – conclude suor Maria Grazia – è il segno della presenza di Dio. È come la possibilità di tornare a quell’unica cosa necessaria che è il Signore. E davanti a tante cose che la vita ci propone, noi vogliamo dirlo”.