Penso d’aver conosciuto un “santo”…

di MONS. PIERO MALVALDI – articolo tratto da “I Quaderni della Propositura”, numero di Dicembre 2022. 

Subito dopo l’ordinazione sacerdotale venni inviato come “coadiutore” (prima si diceva “cappellano”) a Pontedera, nella parrocchia di San Giuseppe in località Oltrera con don Enzo Lucchesini, un parroco giovane e brillante che mi accolse con affabilità impegnandosi da subito a inserirmi nella realtà della comunità.

Gli impegni, mese dopo mese sempre crescenti, mi assorbivano completamente tanto che non riuscivo a ritagliarmi nemmeno qualche ora per la preghiera personale e per l’aggiornamento filosofico e teologico.

Don Enzo allora mi impose di non prendere impegni per il dopo-cena se non per occasioni particolari e di dedicare quel tempo prezioso allo studio e alla preghiera.

Mi spiegò che lui, superata brillantemente la maturità classica, non era riuscito a laurearsi per essersi lasciato travolgere dagli impegni parrocchiali.

E così tutte le sere mi ritiravo in camera e studiavo un po’ di tutto da autodidatta: musica, direzione corale, lingue, fotografia, filmografia e tantissime altri discipline, inutili. Forse inutili no ma certamente poco consone al mio stato di sacerdote in servizio pastorale. Di nuovo don Enzo intervenne e mi suggerì di limitarmi ad approfondire le discipline teologiche e in particolare alla teologia biblica che da sempre era la mia materia preferita. Riuscii così a pubblicare pro-manuscripto e in un numero limitato di copie un albo a fumetti con gli episodi più importanti degli Atti degli Apostoli e successivamente uno, a colori, sulle cosiddette lettere cattoliche.

Don Enzo, compreso il mio interesse e la mia disposizione mi consentì allora di frequentare, da uditore, alcuni corsi specifici tenuti da teologi importanti. Ricordo in particolare il corso di don Giampiero Bof per la teologia fondamentale, quello di mons. Marcello Bordoni sulla Cristologia e quello di don Giannino Piana sulla Morale fondamentale; ne frequentai anche un quarto di Storia della Chiesa ma non riuscii a terminarlo.

Diventato parroco decisi di proseguire gli studi teologici in modo più ordinato e scelsi per questo lo Studio Teologico Accademico Domenicano di Bologna dove, accolto benevolmente dai padri domenicani e guidato saggiamente dal prof. p. Ottorino Benetollo, superai l’esame di baccalaureato (corrispondente alla Laurea breve) comprendente ben novanta argomenti delle varie discipline.

Iniziai i corsi (incluso un corso facoltativo di filmografia con il prof. p. Abbrescia) tutti molto interessanti e utili, cercando d’essere fedele alle lezioni e agli altri appuntamenti. Feci anche amicizia con vari professori in particolare con padre Alberto Galli con il quali condividevo il posto a tavola nel grande refettorio del convento di San Domenico.

Gli esami andavano bene e giunsi così in breve tempo a dover pensare all’argomento della tesi finale. Il professore prescelto per competenza e simpatia, il predetto prof. p. Benetollo, non aveva tempo per seguirmi e mi indirizzò a un certo professor Tomas Tyn che non conoscevo se non di vista.

Dagli incontri preliminari mi resi subito conto d’aver davanti oltre che un professore molto preparato anche un religioso zelante. Eravamo coetanei solo che lui era il professore e io lo studente per cui mi presentai con deferenza e rispetto.

Lui mi ricambiò immediatamente offrendomi la massima collaborazione.

Ora, chi è laureato sa bene come funziona il “tutoraggio” del professore.

Lo studente presenta l’argomento – nel mio caso la dottrina sociale della chiesa – e il professore prima di tutto “aggiusta il tiro” per così dire, cioè aiuta lo studente a focalizzare il tema specifico in modo che non ci siano sbavature fuori-tema.

In secondo luogo suggerisce i testi ai quali fare riferimento per la ricerca preliminare e infine traccia le linee di approfondimento per aiutare lo studente a produrre qualcosa di personale e di originale. In tutte e tre queste fasi i rapporti fra i due devono essere strettissimi onde evitare allo studente di perdere tempo percorrendo strade sbagliate.

Raccolto dunque il materiale di ricerca presentai il possibile indice del lavoro. Il professore ridusse ulteriormente il campo di studio e mi fissò 4/5 capitoli, non di più.

Iniziai così a scrivere il primo capitolo cui seguì la sua correzione. E così tutti gli altri. Le sue osservazioni, numerose e pertinenti, mi costrinsero più volte a scrivere e riscrivere parti anche consistenti del lavoro ma lo feci volentieri. Insomma in pochi mesi giunsi alla conclusione che approvò senz’altro. Mi pregò soltanto di verificare una per una le citazioni sia quelle magisteriali sia quelle scritturali e così i vari testi che avevo riportato cosa che feci con impegno e serietà.

Venne quindi il giorno della Licenza – corrisponde alla Laurea magistrale – alla quale mi presentai speranzoso, forte di una media alta agli esami e di un giudizio positivo del relatore della tesi.

Invece… fu un disastro.

Dopo l’esposizione benevola del mio relatore prese la parola il controrelatore (detto anche censore) prof. p. Galli, che mi annientò. Io cercavo di rispondere ai numerosi rilievi e guardavo il relatore sperando di ricevere aiuto ma padre Tomas, terreo in volto, era più smarrito di me.

Seguì l’orale con il prof. p. Ruggero Biagi che non andò meglio visto il clima nervoso che si era creato nell’aula e anche la mia incertezza sull’argomento richiesto.

Insomma, per farla breve, uscii dall’esame di Licenza con un punteggio inferiore alla media con la quale mi ero presentato.

Ero molto arrabbiato con padre Galli che nelle pressoché settimanali frequentazioni a tavola non si era lasciato sfuggire… verbo ma anche con padre Thomas.

Mi aveva costretto a un sacco di correzioni, mi aveva fatto ri-scrivere un intero capitolo, mi aveva assicurato – per scritto – che il mio lavoro era ben fatto e poi se ne era stato zitto senza difendermi.

Lasciai sbollire la rabbia e per prima cosa affidai il mio lavoro a un professore terzo (prof. Dianich) perché a quel punto non ero più certo d’aver scritto delle cose sensate e quando mi assicurò che avevo prodotto un lavoro pregevole reagii inviando una lettera di protesta all’Università e affrontai, uno dopo l’altro, sia il controrelatore che il relatore. Padre Ruggero intanto era morto, ancora giovane, ai primi del 1988.

Padre Galli mi ricevette nell’infermeria. Soffriva molto. Anche se la malattia lo stava logorando aveva voluto ugualmente incontrarmi. Vedendolo molto provato lo abbracciai con sincero affetto e lo ringraziai per l’esempio di serietà intellettuale e di assoluta imparzialità che mi aveva dato.

Le mie correzioni ti saranno di aiuto nel prosieguo dei tuoi studi”, mi disse.

Fu la sua ultima “lezione” perché pochi mesi dopo (febbraio 1990) si spense. Devo dire che questa sua previsione si è avverata perché effettivamente non ho più avuto problemi nel mio lungo percorso accademico fino al dottorato di ricerca.

Poi passai, corrispondenza alla mano, a Padre Tyn e lì mi resi subito conto d’essere alla presenza di un “santo”. Davvero.

Era palesemente mortificato per l’accaduto.

Mi spiegò che, a suo tempo, era stato allievo di padre Galli (già suo relatore di tesi di Licenza) e quindi non se l’era sentita di dargli contro pubblicamente per rispetto.

Poi aggiunse che se io ero rimasto deluso, lui, in quanto relatore, era rimasto deluso più di me ma aveva accolto questo “insuccesso” accademico come dono di Dio per imparare a essere più umile.

A suo parere io avrei dovuto fare lo stesso e sentirmi ugualmente sereno per l’accaduto. Mi citò il salmo che dice: “bene per me se sono stato umiliato…”.

Non osai replicare, anzi, mi venne da vergognarmi delle mie lagne.

A quel punto si sciolse e cominciò parlarmi “a ruota libera” della sua vocazione monastica in Cecoslovacchia, della sua prima esperienza all’estero in Francia e poi dell’ingresso in un convento tedesco dove si era sentito soffocare e di come aveva poi trovato nella comunità di Bologna il suo ambiente di vita religiosa ideale nell’attesa di tornare nella sua amatissima patria per contribuire a rifondare l’ordine domenicano.

Dentro di me pensai che fosse un esaltato oppure un… santo: era il 1986, la Cecoslovacchia era ancora schiacciata sotto il tallone sovietico e non si intravedeva alcun segnale di rinascita cattolica.

Ci lasciammo con un caloroso abbraccio, pienamente riconciliati.

Di lì a poco anche lui, ad appena 39 anni di età, colpito da una malattia incurabile, morì (gennaio 1990).

Leggendo sul giornale della sua morte rimasi sgomento. Poi lessi da qualche parte del suo desiderio – espresso durante la dolorosa malattia – di offrire la vita per la sua Patria perché tornasse a Dio e mi resi conto che era davvero un “santo”!

Solo un santo può, sull’esempio di Gesù, offrire la propria vita non solo per i buoni ma anche per i persecutori!

Nell’apprendere la notizia contattai subito Padre Cavalcoli, appena nominato postulatore della sua causa, e mi feci inviare delle foto-ricordo che distribuii a persone care, come lui generose nel servizio e pronte a fare la volontà di Dio.

Offrii al contempo la mia “totale” disponibilità a testimoniare sulla sua fede e sulla sua umiltà nel caso fosse stato aperto un approfondimento canonico sulle sue virtù. Seguì un lungo periodo silenzio dovuto a cause a me sconosciute.

Proprio questa estate sono venuto a sapere che la “causa” potrebbe essere ripresa e me lo auguro perché penso che il caro Padre Tomas lo meriterebbe e con lui l’Ordine Domenicano del quale mi onoro di essere discepolo.

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