di DON PIERO MALVALDI
Papa Francesco, in diversi documenti oltre che nelle sue omelie in Santa Marta e nelle catechesi del mercoledì accenna alla gioia dell’essere cristiani e del sentirci amati dal Signore.
L’argomento è stato ripreso con straordinaria efficacia, nel mese di Gennaio, da don Maurizio Mirilli nell’occasione della conferenza sulla pastorale giovanile che si è tenuta al Forte e dal maestro Mario Badiali nella Veglia per la Pace 2019.
Anch’io, come tanti altri presenti ai due incontri in questione, ho provato a riflettere sulla questione giungendo alla conclusione che noi cristiani siamo davvero dei privilegiati pur nella semplicità e addirittura nell’anonimato della nostra esistenza: con Gesù nel cuore diventiamo “capaci” di amare tutto e tutti, viviamo la vita con gioia fino a diventare, come nel caso dei personaggi sopra citati, veri “dispensatori” di gioia.
Ma, ci chiediamo, come è possibile realizzare questa piena sintonia con il Signore in mezzo al “caos” degli impegniappuntamentiincontriscontri della vita di tutti i giorni?
“Io sono una persona che ha tanto bisogno di stare con Gesù ma non ci riesco”, mi scrive per mail un’amica esprimendo con queste appassionate parole il disagio di tanti cristiani.
Mi è tornato allora alla memoria un incontro di molti anni addietro quando, ormai incamminato sulla via del sacerdozio, ebbi l’occasione di conoscere due maestri di spiritualità: Carlo Carretto, già dirigente nazionale di Azione Cattolica e un anonimo impiegato di banca.
Nell’estate del 1972 don Mirello Paoletti di v.m., allora rettore del Seminario di Pisa, mi iscrisse, insieme con i seminaristi del corso teologico, alla scuola di educazione alla preghiera di Spello retta dall’allora famoso Carlo Carretto.
Ospiti di una casa semi diroccata alle falde del monte Subasio iniziammo il corso con entusiasmo. Questo prevedeva delle lezioni e delle non meglio precisate esperienze “sul campo”. Scoprimmo subito il primo giorno che il “campo” era davvero un campo fatto di terra dove c’era da lavorare e da lavorare duramente. Fratel Carlo giunse con il suo vecchio “maggiolino” e dall’ampio cofano anteriore trasse pale, picconi e simili assegnandoci poi dei lavori in prossimità della casa o nelle vicine proprietà.
A me venne dato l’incarico di scavare per realizzare una fossa biologica. Dopo tre ore, mezzo ustionato dal sole cocente, con le mani spellate e sanguinanti, madido di sudore, ero riuscito a scavare il terreno, estremamente sassoso, soltanto per una profondità di pochi centimetri. La mia fortuna fu che il manico del piccone cedette per cui ebbi la scusa buona per rientrare in casa a “leccarmi” le ferite.
Nel tardo pomeriggio, concluso l’orario di lavoro ci fu la prima “lezione”: “Cari ragazzi, non fate la faccia triste; oggi avete fatto la prima scoperta: la preghiera non è riservata soltanto a chi come voi – e intanto ci guardava negli occhi – è abituato a maneggiare i libri. La preghiera è un dovere per tutti anche per chi lavora. È chiaro che non potrà essere una preghiera fatta di formule ma solo di contemplazione del Crocifisso. Sarà una preghiera povera, fatta di amorevoli sguardi alla croce, tra sospiri e lamenti per la durezza del lavoro, per le poche soddisfazioni ecc. ma una preghiera assai gradita al Signore. Adesso andate a riposare perché l’alba viene presto”.
Questa solfa durò una quindicina di giorni. Ogni giorno era un lavoro diverso e una lezione diversa. Ricordo ad esempio quando venimmo impiegati per la raccolta delle presse del fieno. Centinaia di presse sparse su un terreno incredibilmente esteso: il padrone avanti con il trattore e noi dietro, insieme agli operai a giornata, per raccoglierle con gli uncini di ferro e depositarle sul pianale.
Fratel Carlo, ci aveva suggerito di invocare con gioia il nome di Gesù, durante il lavoro, per avvertirne meno la pesantezza. Così, nella ingenuità dei miei vent’anni, a ogni pressa seguiva l’invocazione festosa: “Gesù, ti amo; Gesù, ti amo…”
Uno degli operai, anziano, mi guardò e mi disse: “Giovanotto, non esagerare. Non ce la faccio a tenere il tuo passo. Rispetta chi non ha né i tuoi anni né la tua forza. Il tuo lavoro dura pochi giorni anzi poche ore. Il mio è fatto di giornate piene, di settimane…”.
Continuai a lavorare ma in assoluto silenzio perché con il mio strafare stakanovista ancorché ornato di gioiose invocazioni avevo umiliato un fratello.
La sera sapevo già cosa mi avrebbe detto fratel Carlo: “La preghiera per essere gradita a Dio deve raccogliere anche le suppliche dei fratelli, soprattutto dei fratelli meno fortunati. Come è possibile lodare gioiosamente Dio ignorando i fratelli? Che preti sarete se non ascolterete le voci dei vostri fedeli?”.
Lasciai il lavoro dei campi e iniziai una nuova avventura in qualità di manovale in una impresa edile formata da padre e figlio. Non capivo niente dei loro discorsi perché parlavano in dialetto stretto; capivo soltanto quando discutevano perché allora sparavano una sfilza di insulti…in un buon italiano! E poi la calce… quando era secca, quando grassa, insomma non ci capivo più niente. Ovviamente non avevo uno stipendio ma, bontà loro, mi offrivano pane e formaggio con un bicchiere di rosso nel momento della pausa.
Puntuale giunse il commento di Fratel Carlo: “Gesù Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini; ma anche il sacerdote, con il volto gioioso di Cristo, mèdia fra le opposte fazioni per favorire la concordia. Pregare significa anche mediare, non lo dimenticate”.
Arrivammo finalmente all’ultima settimana… di scuola.
Passavamo buona parte del pomeriggio a studiare le costellazioni: il programma infatti prevedeva una speciale preghiera notturna fatta di momenti di silenziosa adorazione eucaristica nel fienile adattato a cappella e di umile osservazione della grandezza dell’universo all’esterno, sotto le stelle.
In quei giorni fece la sua comparsa, accampato con una piccola “canadese” nel folto del bosco, un signore sulla cinquantina, romano. Era un impiegato di banca che, a suo dire, sentiva il bisogno di stare, solo, con Gesù. E aveva scelto i boschi del Subasio per fare una decina di giorni di silenzio, immerso nella natura, a tu per tu col Signore. Buon parlatore, si illuminava citando i detti del Signore, gli esempi dei Santi, le testimonianze dei suoi amici missionari… Era il ritratto della gioia: contento per la professione che gli consentiva di coltivare amicizie con i clienti; felice per la famiglia, moglie e i due figli, che lo amavano appassionatamente; entusiasta per la parrocchia d’appartenenza.
Parlando poi però venne fuori che anche lui aveva (e aveva avuto) le sue sofferenze e, di conseguenza, i suoi momenti di angoscia, di pianto: un delicato intervento chirurgico che lo costringeva a continue visite di controllo, serie incomprensioni con i parenti, un clamoroso errore professionale…
Tutto questo non gli aveva fatto perdere fiducia nel Signore di cui si sentiva figlio amato addirittura privilegiato. Avvertiva quindi la necessità di ritagliarsi dei momenti da dedicare completamente a Lui, momenti di preghiera silenziosa, nel folto di un bosco, in assoluta intimità con Gesù per poter mantenere quella tensione spirituale che gli permetteva di vivere nella gioia. “Ragazzi, ci disse nel momento del commiato, imparate a sorridere. La vostra gioia di vivere e di vivere il Vangelo sarà la testimonianza più bella dell’amore di Dio per gli uomini”.
Immagino che abbiate capito: il segreto per vivere e mantenerci nella gioia sta nella confidenza in Dio, confidenza che ha bisogno anche di momenti di intimità e di silenzio.
P.S. Faccio notare ai lettori, per inciso, che questi due eccellenti maestri di preghiera, fratel Carlo e l’anonimo impiegato, erano semplici laici: incredibile, vero?
Editoriale del numero di Aprile 2019 de “I Quaderni della Propositura”, edito dalla Parrocchia di Sant’Ermete