Il 17 Ottobre u.s. è mancato, stroncato da una brutta forma tumorale, mio fratello prof. Gino già professore nella Facoltà di Medicina dell’Università di Pisa.
Nell’occasione del funerale, prendendo spunto da alcuni passi biblici in particolare dal salmo 130, ho accennato al particolare spessore morale della sua persona.
In questo editoriale vorrei allargare un attimo il discorso alla sua personalità tenendo conto del fatto che con questo numero della rivista si apre un dossier sulle “virtù naturali” di cui mio fratello è stato certamente un modello apprezzabile.
Non avverto assolutamente imbarazzo a scrivere queste pagine perché mi atterrò scrupolosamente alla verità dei fatti; anzi sono molto felice di poterlo presentare certo che il suo esempio potrà essere d’aiuto ai nostri giovani che si affacciano ora alla professione medica.
DI DON PIERO MALVALDI
Mio fratello, così riporta la tradizione orale della famiglia, ha avuto fin da piccolo una naturale predisposizione alla ricerca e alla verifica: tanto per fare un esempio eviscerò (sbuzzò… nel linguaggio volgare) il cavalluccio di stoffa appena ritirato al dopo-lavoro delle Ferrovie di Pisa dove mio padre lavorava in qualità di assistente di stazione per verificarne l’interno spargendo poi per tutta la casa il crine, lasciando senza parole mio padre (o Dio, conoscendolo penso proprio che qualche espressione colorita gli sarà sfuggita) che gliene aveva fatto dono.
Dopo un buon iter scolastico alle Elementari e Medie di paese e al Liceo Classico “Galilei” di Pisa, incoraggiato e sostenuto dallo zio prof. Varese, all’epoca direttore sanitario dell’ospedale di Pistoia, si iscrisse alla Facoltà di Medicina e Chirurgia cominciando da subito a sostenere esami su esami conseguendo sempre il massimo dei voti.
Oltre lo studio non aveva interessi particolari se non la pesca che praticava con successo con malcelata invidia da parte degli avventori del bar paesano, la fotografia, sfruttando una vecchia ma validissima macchina fotografica tedesca e le corse in moto con il fratellino (lo scrivente) dietro e questo finché il severo genitore non se ne accorse privandoci di questo pericoloso passatempo (vendette la moto).
Il suo sogno era di diventare chirurgo e precisamente chirurgo plastico avendo a detta dei suoi professori una mano precisa e ferma. Alcuni seri problemi di salute determinati dal contatto con gli ammalati in Clinica Medica gli impedirono di portare avanti questo sogno per cui ripiegò sulla ricerca pura e questa scelta fu la sua fortuna perché guidato dal compianto prof. Puccinelli intuì e riuscì a portare avanti una ricerca molto interessante sulla funzionalità epatica, in pratica la sua prima pubblicazione scientifica, che gli fruttò un applaudito intervento in assemblea a un congresso internazionale a Saint Vincent, l’ingresso al collegio medico della Normale di Pisa (oggi S.Anna) e alla Facoltà in qualità di assistente volontario.
La carriera universitaria com’è noto impone molti sacrifici al candidato e alla famiglia perché per vari anni non si vede un soldo. Ma i miei, felici nel vederlo realizzato, non gli lesinavano incoraggiamenti e aiuti finanziari anche se mio padre spesso bofonchiava che non avrebbe potuto mantenerlo a vita.
Intanto Ginino si era fidanzato con Giovanna una cara amica d’infanzia: entrambi appartenevano al gruppo giovanile della parrocchia e così fu facile incontrarsi e frequentarsi seppure sotto l’occhio vigile di don Lido che come ogni buon parroco spiava ogni mossa sospetta.
Anche il sottoscritto intanto cresceva: i miei genitori mi avevano iscritto come interno all’Istituto Arcivescovile Santa Caterina, nota fucina di preti, senza particolari intenzioni, almeno da parte di mio padre, se non quella di farmi crescere in un ambiente sereno e attento alla educazione cristiana e umana.
Fra i miei insegnanti di allora ricordo con affetto e riconoscenza i professori Di Manno, Sainati, Mazzari, Borghesan, Borla, gente preparata che non faceva troppi sconti anche se l’ambiente scolastico era molto familiare: dall’istituto e in particolare dalla mia classe sono usciti fior di professionisti con tanto di targa in ottone alla porta di casa e villa a Forte dei Marmi. Fra i sacerdoti l’indimenticabile don Antonio Bianchin che mi aiutò a scoprire la bellezza del ministero sacerdotale.
Nei mesi precedenti la maturità mi si presentò lo zio Umberto, famosissimo avvocato, che mi chiese a quale facoltà mi sarei iscritto questo per dire che nessuno, salvo mia madre, avrebbe scommesso sulla mia vocazione al sacerdozio.
Fu allora che ebbi il primo incontro serio con mio fratello: non che fino allora non avessimo mai parlato solo che io in Istituto e lui al Collegio Medico non avevamo molte occasioni per incontrarci.
In quella circostanza, più da padre di famiglia che da fratello mi invitò, se ne fossi stato convinto, ad andare avanti nel cammino vocazionale promettendomi il suo incondizionato sostegno: se non ricordo male mi fece anche piangere ma su questo punto preferirei sorvolare essendo un argomento troppo personale…
Il matrimonio di Gino e Giovanna venne celebrato a San Piero a Grado: di quel giorno ricordo soltanto l’incidente automobilistico subito dalla nostra auto con Vincenzo, Daniela, Anna Maria e il sottoscritto tamponati violentemente, il ricevimento con i camerieri in sciopero e la furia del mio babbo per tutti questi contrattempi.
Il matrimonio venne presto allietato dalla nascita di due frugoletti Paolo e Marco, oggi pure loro genitori oltre che affermati professionisti, mentre intanto i due giovani sposi proseguivano la loro brillante carriera, Gino alla Facoltà di Medicina e Giovanna alla Facoltà di Ingegneria: l’affetto profondo che li legava e il dovere che avvertiva nei confronti dei figli costrinse quest’ultima, immagino con rammarico, a rinunciare alla cattedra universitaria per una più modesta ma più vantaggiosa per crescere i figli, all’Istituto tecnico.
Anche per Piero intanto erano cambiate le cose: era diventato don Piero, aveva fatto il suo tirocinio a Pontedera, aveva ultimato gli studi teologici ed era stato nominato parroco a San Casciano a pochi passi dalla casa natale.
Sono stati proprio i 14 anni a San Casciano che mi hanno fatto sentire vicino mio fratello: se prima si trattava di incontri sporadici adesso gli erano settimanali e riuscivamo a trovare il tempo anche per fare qualche passeggiata sull’argine del fiume a osservare gli anfratti dove si nascondevano i pesci oppure a salire in macchina il Serra per parlare di questioni alte proprio come la montagna, come quelle riguardanti lo spirito.
Mio fratello aveva una fede da bambino nel senso di cui parla Gesù nel famoso discorso dei piccoli (se non diventerete come bambini ecc…); osservava la natura vivente, nel piccolo e al microscopio per lavoro; nel grande per passione. Tutto ciò lo portava ad ammirare con gli occhi di Gesù le creature viventi, inclusi gli esseri umani, fra i quali prediligeva sempre come Gesù, i “vinti dalla vita” cioè le persone più fragili.
Educato da mia madre alla pratica religiosa, pur senza essere un bigotto, frequentava fin da giovane la chiesa e amava approfondire gli argomenti della fede cristiana; seguendo don Puccini aveva seguito perfino alcuni corsi biblici per corrispondenza, trovando nella parola di Dio risposte persuasive ai quesiti più impegnativi riguardanti il dogma cristiano. Fra le sue letture degli anni giovanili ricordo i testi di Enrico Medi, le testimonianze di De Giorgi e Zichichi, le omelie di don Cvecich, i libri di don Dianich ecc.
Forte di queste conoscenze riusciva quindi a essermi di aiuto parlandomi a voce sommessa, nel suo tipico stile, senza usare il parlare solenne proprio di un certo ambiente accademico ma semplicemente come si fa in famiglia, con i figli.
Eh sì, spesso in queste conversazioni io, abituato a sentirmi chiamare padre mi sono sentito figlio, lo confesso con molta sincerità.
E anche quando ho avuto dei momenti di stanchezza o di sfiducia, per la fragilità della condizione umana o per i risultati pastorali decisamente modesti, ho trovato in lui un amico pronto a consolarmi e a incoraggiarmi.
In questo ultimo periodo della sua vita si sentiva completamente appagato: i suoi allievi erano tutti sistemati, i figli sposati e realizzati, i nipotini bravi e buoni e poi c’erano le fragole nell’orticello condominiale, la Messa in centro con la Giovanna, qualche salto al Forte dal fratello prete…
Così quando la malattia ha bussato alla sua porta non si è lasciato prendere dal panico ma ha accolto quasi con ironia la possibilità di un esito infausto della sua vita, a breve.
Poi ha redatto il testamento, ha provveduto ad avvisare gli amici e i colleghi più cari e si è posto nelle braccia del Signore proprio come dice il salmo citato in precedenza, disponendosi all’incontro con Lui.
Quando mi ha chiesto il sacramento dell’Unzione pur essendo sacerdote ho avvertito per un istante una estrema sofferenza dal punto di vista umano che poi ho superato per la comune fede nel Signore ma anche grazie al suo incoraggiamento.
Dopo l’Unzione e l’Eucarestia c’è stato anche l’abbraccio con Giovanna e insieme con lei e con me la preghiera di benedizione per i figli e i nipoti.
A tu per tu ha avuto anche il tempo per un’ultima battuta-rimprovero: “non ti sentire l’ultimo dei Mohicani per piacere, dai tempo al tempo” riguardo a un mio particolare stato d’animo. Sapendo poi che sarei andato in pellegrinaggio a Lourdes ha fatto propria una bella espressione di un comune amico invitandomi a far presente alla Madonna che il vino stava per finire…
Dopo quel momento è stato un crescendo di sofferenze soprattutto psicologiche fino alla fine, nella notte di Lunedì 17 Ottobre.
Nel manifesto funebre ho riassunto la sua vita in questi termini: “appassionato cultore della ricerca medica, formatore di più generazioni di medici, nonno felice di Tina, Leo e Andrea”.
Che il Signore lo abbia in pace!
Sono stato suo allievo nella facoltà di Medicina e lo ricordo con stima e affetto come una persona appassionata forte dolce capace seria sicura
Grazie prof